Nudo senza nido: il disegno del bambino disagiato

di Nunzia Tarantini | in Adolescenza, Blog, Infanzia
"Madre con bambino malato" di Pablo Picasso (1903), Museu Picasso di Barcellona.

“Madre con bambino malato” di Pablo Picasso (1903), Museu Picasso, Barcellona.

“Ogni bambino ha diritto ad una buona famiglia in cui crescere e niente, se non una disgrazia,
può privarlo di questo diritto.”
(Donald W. Winnicott, 1986)

Chi è il bambino disagiato?

Il bambino disagiato è colui a cui è stata sottratta l’unità della famiglia o una parte di essa. Gli è stata negata totalmente o in parte una sicurezza di cui egli non può assolutamente fare a meno e di cui non può essere privato senza che ciò interferisca con il suo sviluppo emozionale e gli causi un impoverimento della personalità e del carattere.

La perdita di alcuni punti di riferimento o dell’intera famiglia non sono i veri problemi per il bambino disagiato: il disagio deriva non dalla perdita in sé, ma dal suo verificarsi in una fase cruciale dello sviluppo emozionale in cui non può aver luogo una reazione matura alla situazione traumatica. Nei fatti l’Io immaturo del bambino non è capace di lutto: non è possibile per lui che non ha raggiunto un certo grado di maturità conformarsi alla complessità di un processo che comporta situazioni di perdita, abbandono e separazione. In tutto ciò è proprio il suo sviluppo emozionale ad essere compromesso, e soprattutto la sua capacità di amare da cui possono derivare, nella fase adolescenziale e adulta, condotte antisociali e delinquenziali o comportamenti psichici deviati.

Tra le varie ricerche svolte a questo riguardo si può citare un’indagine condotta da John Bowlby e Donald W. Winnicott presso le Child Guidance Clinic di Londra, centri destinati alla psicodiagnosi e alla psicoterapia infantile. Essa dimostra che un importante fattore esterno nel determinarsi di una delinquenza persistente risiede nella separazione prolungata di un bambino piccolo dalla madre. Su un campione statisticamente valido di casi esaminati, più della metà avevano subito nei primi cinque anni di vita periodi di separazione dalla madre e dall’ambiente familiare della durata di sei mesi ed oltre. Sia Bowlby che Winnicott scriveranno una lettera al British Medical Journal evidenziando che i bambini piccoli separati dalle madri, di età compresa tra i due e i cinque anni, mostravano problemi psicologici di notevole importanza (D. W. Winnicott, 1986).

Continua Winnicott:

“È senz’altro possibile che un bambino di qualsiasi età si senta triste e turbato se è abbandonato o, addirittura, deve lasciare la sua casa, ma ciò che si vuole sottolineare è che nel caso di un bambino piccolo una tale prova può significare molto più di una concreta esperienza di tristezza.”
(D. W. Winnicott, 1986)

In effetti tale situazione può determinare un black-out corporeo ed emozionale, e condurre ad un grave disturbo dello sviluppo della personalità, che può persistere per tutta la vita: bambini orfani, senza casa, bambini vittime della guerra, sfollati, emigrati, affidati, adottati si configurano già come tragedie.

Dobbiamo, quindi, comprendere che più è piccolo il bambino, maggiore è il pericolo che si corre nel separarlo dalla madre, ossia in esso è minore la capacità di conservare in sé stesso l’idea di una persona viva. Se questo bambino non vede o non ha una prova tangibile dell’esistenza della madre entro n minuti, ore o giorni, la considererà morta a tutti gli effetti, e nel contempo sedimenterà al proprio interno uno stato depressivo. Questo meccanismo psicologico è così vero che molti individui depressi, a qualsiasi età appartengano, si caratterizzano per il fatto di avere difficoltà nel tener viva l’idea delle persone che amano, forse anche quando vivono nella stessa stanza con loro.

Winnicott ci ricorda che il bambino disagiato o, come lui lo definisce, “deprivato” è una persona malata psichicamente, una persona la cui storia passata è stata tutta un’esperienza traumatica e che ha un modo personale di far fronte alle angosce insorte, ma è anche una persona con una capacità di recupero più o meno grande, a seconda del grado di perdita e dell’età in cui le è venuto a mancare un ambiente sufficientemente buono.

Seguendo l’idea winnicottiana, diremo innanzitutto che un bambino sottoposto a deprivazione subisce una rottura della continuità delle cure di cui egli ha maggiormente bisogno e che la deprivazione si presenta come fallimento delle prime provvidenze fondamentali dell’ambiente o, peggio, racchiude situazioni in cui le provvidenze ambientali dapprima presenti vengono improvvisamente meno. In quest’ultimo caso sottraendo cure al bambino che ha già raggiunto un buon grado di organizzazione dell’Io lo si rende incapace di formarsi un ambiente interno, che gli permetta di diventare indipendente. Winnicott conclude dicendo che la deprivazione non conduce alla psicosi, bensì allo sviluppo nell’individuo di una tendenza antisociale (D. W. Winnicott, 1986).

Infatti i classici sintomi di un bambino disagiato sono riconducibili a:

  • avidità e voracità (quest’ultimo è da considerarsi un precursore del furto);
  • tendenze antisociali ed alla delinquenza;
  • tendenza alla fuga;
  • atteggiamenti di chiusura, con l’autoesclusione dalle relazioni con altre persone;
  • gelosia e litigiosità;
  • iperattività e aggressività;
  • stati alterni di euforia e depressione.

Vediamo ora di analizzare il contesto impoverito di un bambino disagiato. In esso un genitore, una coppia, una famiglia, o la stessa comunità non riescono a prendersi cura del bambino in maniera adeguata.

Nello specifico diremo che:

  • una madre inaffidabile (spesso caotica, depressa, ansiosa, violenta, immatura, capace di abbandonare);
  • un padre inaffidabile (spesso assente, alcolizzato, drogato, violento, incapace di garantire la sopravvivenza familiare, capace di abbandonare);
  • una coppia inaffidabile (spesso ostile, assente, incapace di amarsi, caotica);
  • una comunità inaffidabile (spesso non centrata sul disturbo infantile da risolvere, disagiata o disorganizzata);

sono i peggiori fattori di vulnerabilità conosciuti che comportano gravi conseguenze nel bambino o nell’adolescente.

Nel disegno infantile si nota spesso una differenza tra bambini cresciuti in ambienti normali e quelli cresciuti in ambienti deprivati. Già nella leggibilità del disegno si nota in genere che il bambino che proviene da un ambiente normale tende a produrre forme armoniose, vivaci ed equilibrate, a disegnare figure umane la cui espressione è valorizzata e curata, laddove il bambino che proviene da un ambiente deprivato disegna scene familiari con sgorbi illeggibili, spesso maldestri o molto naïf.

Il disegno del “bambino normale”

Il bambino normale è colui che appartiene ad una famiglia integrata. I membri di una coppia genitoriale si assumono insieme la responsabilità della crescita dei figli. Il bambino non si limita a mangiare, a crescere e a sorridere dolcemente: grazie alla fiducia che nutre in entrambi i genitori, supera tutti gli ostacoli che gli si presentano. È un bambino a cui è stata data una cornice ambientale continua, coerente e stabile che gli permette di sentirsi libero, di giocare, di disegnare, di essere senza alcuna responsabilità. Inoltre, vivendo in un’atmosfera di amore e di fermezza (e quindi di tolleranza), non si dimostra eccessivamente timoroso dei suoi pensieri e delle sue immaginazioni, procedendo così libero nel suo sviluppo emozionale.

Rita, 12 anni, disegna la sua famiglia

Rita, 12 anni, disegna la sua famiglia.

Rita disegna la sua famiglia in modo felice. Il clima emotivo della famiglia lo interpretiamo come buono perché la ragazza all’interno del disegno presenta tutti i membri della famiglia e li valorizza. Inoltre riempie il foglio (= ambiente) con oggetti (mare, uccelli, sole, casa, ecc.) e usa colori vivaci (rosso, verde, celeste, arancione, ecc.). Rita presenta la famiglia come sede di scambi emozionali: i valori che vengono scambiati sono amore (il padre abbraccia la madre, i bambini sono vicini ai genitori) e felicità (espressa dalla completezza del paesaggio: mare, sole, tramonto, onde).

Dettaglio del disegno della famiglia di Rita, 12 anni.

Dettaglio del disegno della famiglia di Rita, 12 anni.

In questa famiglia l’intero processo di distribuzione delle gratificazioni è governato dai genitori che sono raffigurati uniti e non distanti. Si può ben dire che quando i genitori si amano reciprocamente, il bambino li ama entrambi; al contrario, quando i genitori si odiano, il bambino è costretto a prendere posizione per l’uno contro l’altro.

Inoltre, in questo disegno i rapporti tra identità individuale e identità familiare sono caratterizzati dal delicato intreccio di processi di fusione e differenziazione: la ragazza va identificandosi sempre più con la madre, il bambino lo sta facendo col padre. Quindi non sono presenti deficit identificatori e il ruolo sessuale dei figli è ben garantito.

Il disegno del “bambino disagiato”

Si è detto in precedenza che il bambino disagiato proviene spesso da una famiglia che lo respinge ancor prima che egli abbia l’idea di una cornice ambientale come parte della sua propria natura. È un bambino che scoprendo che la cornice della sua vita è spezzata, non si sente più libero, anzi diventa ansioso e, qualora nutra ancora qualche speranza, si metterà ben presto a cercare tale cornice lontano dalla propria casa.

Anonimo ragazzo ruandese disegna la sua famiglia

Anonimo ragazzo ruandese disegna la sua famiglia.

Anonimo ragazzo ruandese disegna la sua famiglia

Un altro ragazzo ruandese disegna la sua famiglia.

I disegnatori sono entrambi ragazzi ruandesi che frequentano istituti sociali a causa della precarietà delle loro famiglie di appartenenza. Nel modo di disegnare sembra che entrambi abbiano neutralizzato ogni forma di angoscia infantile (angoscia di contagio, di separazione, di castrazione, angoscia dell’estraneo e per la perdita dell’amore, ecc.), ma in realtà è probabile che semplicemente manchi colui che dovrebbe avere il compito di contenerla: l’oggetto primario di riferimento. Per meglio spiegare questo meccanismo diremo che un vasto campo d’azione di forze distruttive è all’interno della personalità di questi ragazzi, ma l’ambiente è così impoverito che anche drammatizzare queste forze distruttive sotto forma di affetti risulterebbe per loro inutile e inascoltato: vivono in un “mondo sordo”.

Dettagli del "Disegno della famiglia"  nei due ragazzi ruandesi

Dettagli del “disegno della famiglia” dei due ragazzi ruandesi.

Sotto questa luce, l’esperienza di questi ragazzi si potrebbe considerare fortemente traumatica perché, come suggerisce J. Sandler (J. Sandler, 1977), la percezione dell’altro evoca una costellazione di immagini non gratificanti di una “non madre”, di un “non padre”, di una “non famiglia” che traducono l’incapacità di “assimilare” qualsiasi cosa, semplicemente perché tale cosa non esiste. Sono casi in cui il soggetto mostra un narcisismo patologico o un sadismo molto plateale, in quanto il forte senso di fallimento familiare ha determinato in lui un’unica rappresentazione mentale: “So-tutto-io”. Le sue azioni tendono a rendere sempre più visibile l’esperienza di solitudine e la nientificazione dell’altro in quanto “non esistente”.

In questi disegni sono tre gli affetti che emergono: rabbia, senso di vuoto e disperazione. La rabbia e la disperazione sono espressi dall’assenza totale dei colori, il senso di vuoto emerge invece dall’uso di linee rigide e ben definite, che hanno l’intento di circoscrivere un limite, ma producono come risultato figure che emanano un’esistenza scarna, arida e disincarnata.

Il bambino disagiato è, usando una metafora, un bambino nudo senza nido, è colui che si trova all’improvviso in una terra straniera e si scopre completamente privo del sostegno di qualsiasi sentimento vivo e familiare, rimanendone atterrito. È il bambino dai sentimenti più svariati in quanto è stato sdradicato, cacciato dalla sua normalità e scaraventato in una forzata crescita: non dovrebbe sorprendere che a tutto ciò possa reagire con paura ed ansia, ma soprattutto con rabbia e distruzione.

Bibliografia

Winnicott, D. W. (1986). Deprivation and delinquency (Tavistock: London-New York, 1984). Trad. it.: Il bambino deprivato. Le origini della tendenza antisociale (Cortina, Milano 1986).

Sandler, J. (1977). The patient and the analyst. The basis of the psychoanalytical process (Karnac: London, 1992). Trad. it.: Il paziente e l’analista. I fondamenti del processo psicoanalitico (Boringhieri, Torino 1977).

Così parlò il bambino del suo disagio

di Nunzia Tarantini | in Adolescenza, Blog, Infanzia

[slideshare id=15992497&doc=cosparlilbambinodelsuodisagio-130114143938-phpapp02]

Così parlò il bambino del suo disagio di Nunzia Tarantini

Disagio, in senso generale, significa:

  • mancanza di agi, di comodità, condizione o situazione incomoda;
  • senso di pena e di molestia dovuto alla mancanza di capacità di adattarsi ad un ambiente o ad una situazione;
  • fastidio, incomodo, inconveniente.

In senso psicologico il disagio segna una situazione traumatica, un vero e proprio attacco, annichilente e destabilizzante, alla personalità in formazione di un bambino o di un adolescente, con conseguenze gravi a breve, medio e lungo termine sui rispettivi processi di crescita.

Il danno provocato dal disagio è in genere tanto maggiore quanto più il contenuto disagiante avviene nella prima infanzia, resta sommerso, ossia rimane nascosto e non viene rivelato, o si ripete nel tempo, o ancora peggio è carente di sostegno e protezione familiare e sociale.

Il disagio in tutte le sue forme rappresenta una ferita profonda che segna la persona in toto e che difficilmente potrà rimarginarsi da sola.

Disvelare il disagio significa parlarne apertamente e – specie se si tratta di un abuso, di un abbandono, di una perdita grave – rappresenta l’unico modo per dare a chi lo ha subìto la possibilità di fecondare il vissuto di sofferenza. Nella presentazione che apre questo articolo si possono vedere bambini e adolescenti che parlano, con l’uso del disegno, del loro disagio e che con l’uso di forme e colori riescono a disvelare i nuclei centrali del loro malessere:

  • Una madre che abbandona è disegnata con tracciato lento e poco colorata, il suo corpo viene rimpicciolito e scheletrito fino a diventare una madre “fil di ferro”.
  • Un padre aggressivo è disegnato deforme nei suoi tratti fisici, il suo corpo viene ingigantito e colorato nei minimi particolari, fino a diventare una bestia inferocita la cui distruttività sarà ricordata anche nella più piccola sfumatura.
  • Una bambina che ha subìto abuso si disegna con un corpo attraente e più adulto dell’età che in realtà ha e si colora in modo acceso, per proiettare tramite il colore il suo messaggio di rabbia e delusione.
  • Un bambino abbandonato in un istituto disegna case vuote e chiuse: non ci sono finestre, né balconi, solo mattoni ben tracciati che sembrano murare quel luogo che ormai è il simbolo di un corpo deprivato di amore e affetto.

Poi sarete voi a leggervi dell’altro: ma non ditelo a me, trovate piuttosto il modo di far capire al bambino che avete capito.

Prima della guerra, l’uomo distruttivo

di Nunzia Tarantini | in Blog, Coppia e famiglia, Madri e padri
Dettaglio del dipinto "Saturno che divora i suoi figli" di Francisco Goya.

Dettaglio di “Saturno che divora i suoi figli” (1819-1823) di Francisco Goya, Museo del Prado, Madrid.

L’uso equivoco del termine aggressività ha creato grande confusione in molti campi della psicologia. Il termine è stato applicato indiscriminatamente al comportamento dell’uomo che difende la propria vita in caso di attacco e a quello del bandito che ammazza la sua vittima per procurarsi denaro, o perfino a quello del sadico che tortura un prigioniero.

Se usato in maniera così maldestra, il concetto di aggressività può significare far uso della forza per esprimere i propri sentimenti e per raggiungere i propri obiettivi o al contrario per intimidire, far colpo, manipolare e talora sottomettere gli altri. Se atti che hanno lo scopo di distruggere, di proteggere, di costruire, vengono denotati con la stessa identica parola, non c’è proprio alcuna speranza di capirne la causa, che non è affatto comune, poiché si tratta di fenomeni completamente diversi.

Non si possono, quindi, far rientrare nello stesso calderone termini come aggressività, distruttività, odio, crudeltà, sete di sangue. Charles Rycroft nel suo Dizionario critico di psicoanalisi sotto la voce aggressione scrive:

“La tendenza pressoché universale degli analisti ad equiparare aggressività ed odio, distruttività e sadismo, è in contrasto sia con la sua etimologia (adgradior: avanzo) sia con il suo tradizionale significato di dinamismo, autorevolezza, espansività, pulsione.”
(Rycroft, 1981)

Anthony Storr ne La distruttività nell’uomo sottolinea che:

“Se vogliamo comprendere la distruttività dell’uomo, è necessario che distinguiamo tra l’aggressività come ‘sforzo attivo’, la pulsione diretta a padroneggiare l’ambiente, che è desiderabile e necessaria per la sopravvivenza, e l’aggressività come ‘ostilità distruttiva’, che in genere deploriamo, e che sembra ostacolare la sopravvivenza, quanto meno della specie, se non dell’individuo.”
(Storr, 1975)

Fu Alfred Adler a distinguere la pulsione aggressiva (Aggressionstrieb), frutto di una spinta istintuale e di autoconservazione, la pulsione distruttiva (Destruktionstrieb), frutto di una spinta irrazionale e distruttiva – o, peggio ancora, di frantumazione – ed in ultimo la pulsione di impossessamento (Bemächtigungstrieb), frutto di istinti ostili, odio e ambivalenza.

Aggressività benigna ed aggressività maligna

Si deve comunque ad Erich Fromm una netta distinzione, divenuta famosa, fra l’aggressione difensiva e reattiva quale espressione di aggressività benigna e la distruttività, la crudeltà e l’odio – propensioni specificamente umane a distruggere e a ricercare il controllo assoluto – quali aggressività chiaramente maligne.

Prima ancora di lui, Konrad Lorenz, autorevole studioso del comportamento animale e particolarmente di quello di pesci e uccelli, decise di avventurarsi in un campo di cui aveva scarsa esperienza e competenza, quello del comportamento umano e contribuì negli anni Sessanta a chiarire le idee con la pubblicazione di diversi libri sull’aggressione umana. In particolare Il cosiddetto male divenne un bestseller e fece una profonda impressione su un ampio settore del pubblico colto.

Lorenz portò avanti la tesi secondo cui il comportamento aggressivo dell’uomo, quale si manifesta nelle guerre, nel crimine, nelle liti personali e in tutte le modalità di comportamento distruttive e sadiche, deriva da un istinto innato, programmato filogeneticamente, che cerca di scaricarsi e aspetta l’occasione propizia per esprimersi. Inoltre asseriva che la violenza ha origine dalla nostra natura animale, da un’irrefrenabile pulsione aggressiva la quale non è un reazione a stimoli esterni, ma una eccitazione interiore che cerca di scaricarsi al di là dello stimolo esterno.

Ma i limiti insiti in una teoria dell’aggressività come istinto innato furono subito visibili.

Innanzitutto una simile teoria rischiava di diventare facilmente un’ideologia, pronta a sopire la paura per quello che potesse accadere e a razionalizzare il senso di impotenza. Peraltro i gruppi umani presentano, rispettivamente, gradi così fondamentalmente diversi di distruttività, che sarebbe stato impossibile spiegare i fatti col presupposto che distruttività e crudeltà fossero innate. Infine i diversi gradi di distruttività possono essere correlati ad altri fattori fisici e alle differenze esistenti nelle rispettive strutture sociali.

A supporto di una teoria dell’aggressività non innata ma frutto dell’ambiente, Fromm in Anatomia della distruttività umana ci ricorda che se l’uomo fosse dotato soltanto dell’aggressione biologicamente adattiva che egli condivide con i suoi antenati animali sarebbe un essere relativamente pacifico: se tra gli scimpanzé vi fossero degli psicologi, questi ultimi certamente non considererebbero l’aggressione un fenomeno preoccupante sul quale scrivere dei libri. Dunque, continua Fromm:

“L’uomo si differenzia dagli animali perché è assassino; l’unico primate che uccida e torturi membri della propria specie senza motivo, né biologico né economico, traendone soddisfazione.”
(Fromm, 2005)

Ed è questa aggressività maligna biologicamente non-adattiva e non-programmata filogeneticamente, che costituisce il vero problema e il pericolo per l’esistenza dell’uomo come specie (Fromm, 2005).

Se inoltre l’aggressività benigna è legata all’istinto di conservazione e di difesa, è sotto il dominio dell’Io normale o maturo, capace di dar senso alla vita dell’individuo e di potenziarla, soprattutto alle passioni che incoraggiano la vita, al servizio della vita (forme che potenziano la vitalità e l’integrazione superiore e producono un maggior senso di gioia), di contro l’aggressività maligna è legata all’istinto di morte e distruzione, sotto il dominio di un Io fragile e monco, capace di distruggere la vita, il corpo, lo spirito, capace di distruggere non solo la vittima, ma anche l’aguzzino, tale da costituire un paradosso: la vita che si rivolta contro se stessa nel tentativo di darsi senso (Fromm, 2005). Questa distinzione rappresenta una base ottimale per un’ipotetica ricerca di cause, atta a farci comprendere il fenomeno ed operare, quando si può, una trasformazione.

Nei fatti reali l’aggressività maligna è una passione o un insieme di passioni umane radicate nel carattere. Essa come aggressività è sempre una forza vitale ma bloccata nel suo sviluppo ed intrisa di elementi di collera, rabbia ed odio¹. Rappresenta la risultante di risposte ad esigenze esistenziali frutto della storia della persona e non della sua semplice natura. Si manifesta sotto forma di masochismo, sadismo, narcisismo, distruttività, avidità, omicidio, menzogna. È specificatamente umana, non deriva dall’istinto animale e non contribuisce alla sopravvivenza fisiologica dell’uomo.

Se per curare l’aggressività benigna la condizione principale consiste nel diminuire quei fattori realistici che la mobilitano tra i quali i più importanti risultano essere la riduzione del narcisismo soprattutto nell’ambito del gruppo familiare, la capacità di responsabilizzare i membri familiari a cooperare e a non creare gerarchie inutili e nocive, il rinnovare nelle famiglie l’etica delle responsabilità dei genitori verso i propri figli creando per essi basi materiali e psichiche dignitose, al contrario l’aggressività maligna, soprattutto quella legata alla struttura caratteriale, comporta una presenza costante, sebbene non sempre espressa, di tratti distruttivi nel carattere, difficilmente curabili. Questo perché la componente invidiosa, avida e bramosa che trasforma un’aggressività normale in distruzione ed odio, specialmente nelle fasi infantili non è considerata patologica, né è curata.

Aggressività nel rapporto primario

L’aggressività nella nostra civiltà si manifesta effettivamente assai presto nel bambino ancora piccolissimo, prima ed indipendentemente da ogni evidente frustrazione. Ma bisogna notare che il genitore (o il suo sostituto) non avverte sin dai primi giorni di vita l’aggressività distruttiva del bambino come problema, né organizza in maniera volontaria e consapevole una strategia per educare i suoi primi impulsi istintuali.

Ed è così che:

  • il primo rapporto emozionale del bambino con l’ambiente, ossia il rapporto orale o cannibalico, in cui il bambino mette in bocca ogni cosa – prova il mondo assaggiandolo – ed incorpora tutto ciò che è mangiabile in maniera bramosa, non viene regolato dall’ambiente circostante, in particolare dalla madre;

  • il secondo rapporto emozionale del bambino, ossia il rapporto anale o sadico in cui il bambino, come dice E. Jones, non solo deve essere disabituato dallo sporcare con gli escrementi il suo corpo e ciò che lo circonda, ma deve anche abituarsi ad una regolarità temporale delle funzioni intestinali, porta il genitore a non vedere queste fonti del piacere e a regolare il flusso in maniera soddisfacente;

  • il terzo rapporto emozionale del bambino ossia il rapporto fallico-narcisistico nel quale il bambino scopre, per così dire, gli organi genitali e impara a ricavarne sensazioni di piacere mediante la stimolazione manuale, non viene affatto regolato dal genitore, ma al contrario spesso sufficientemente castrato.

Sulla base dell’esperienza psicoanalitica è noto che se alcune porzioni dei tre rapporti appena descritti non sono state curate a sufficienza potranno portare nell’adolescente o nell’uomo adulto i peggiori tratti distruttivi del carattere: in altre parole esiste una stretta connessione tra il trascurare questi tre periodi di crescita dell’energia psichica infantile e lo sviluppo della crudeltà e dell’ostilità verso se stessi o verso gli altri.

Inoltre questi tratti ostili si organizzano spesso all’interno di un’intera costellazione familiare per niente conscia dell’esistenza di tendenze distruttive e che pertanto tende a lasciarle indisturbate come in una specie di limbo intrapsichico.

Distruttività nel gruppo familiare

Quello che segue è un elenco di alcune situazioni che agevolano la persistenza degli impulsi distruttivi in un gruppo familiare e sociale:

  • predominio dell’odio sull’amore;
  • invidia primaria molto intensa anche per costituzione;
  • incapacità di contenere il bisogno, sentito come irresistibile;
  • situazioni in cui predominano persone, soprattutto adulti, vittime di passioni non governate: passioni tristi e depressive, oppure gaie ed espansive;
  • manifestazioni di violenza massiccia spesso senza scopo, senza motivo e senza riflessione;
  • incapacità, perlopiù genitoriale, di crescere e quindi di fungere da contenitore;
  • mancanza di figure buone nei primi periodi di vita o inabilità a farne uso;
  • struttura ed organizzazione di tipo narcisistico della personalità dei membri della famiglia, con stile arrogante e borioso.

Purtroppo non sono solo queste le costellazioni familiari in cui persistono pulsioni distruttive, né si deve instaurare una causalità lineare fra frazione disagiata e con disadattamento sociale ed incremento della distruttività. È piuttosto la gente cosiddetta normale o quasi normale a creare problemi di distruttività familiare, ben coperti da una maschera di adattamento.

Se una famiglia con stile nevrotico o, peggio, psicotico può produrre, tramite i suoi membri, atti sintomatici o problematiche psichiche – angosce, tensioni, fobie, pensieri coatti, comportamenti catastrofici, ecc. – che la inducono a consultare uno psicoterapeuta e quindi ad emettere un segnale all’esterno, di contro in una famiglia cosiddetta adattata i comportamenti anormali ed antisociali dei suoi membri non giungono facilmente ad essere sottoposti all’attenzione di uno soggetto esterno qualificato, per esempio uno psicoterapeuta: solo poche voci isolate si potranno lamentare di loro all’esterno, così una tale famiglia continuerà a tenere  all’interno un comportamento disturbato, senza alcun insight sull’anormalità del proprio stato mentale.

In altre parole, gli individui distruttivi non sono solo i disadattati psichici, i cronicamente inetti e dipendenti, i pervertiti, gli schizoidi, gli alcolisti, i tossicomani, i vagabondi e tutti coloro che si servono della violenza per ottenere i loro scopi (gli psicopatici aggressivi). Il termine distruttivo può designare una varietà così ampia di esseri umani atipici, soprattutto quel genere di persone che, prive di significato ed intrise di scarsa cultura e consapevolezza, continuano ad essere certi di comportarsi nel migliore dei modi e di essere persone moralmente accettabili.

Il distruttore “invisibile”

Distruttive non sono solo quelle persone che non hanno mai imparato a controllare i loro impulsi legati all’odio o quelle che non hanno sviluppato un tipo di coscienza morale che potrebbe distoglierli dall’utilizzare questi impulsi malvagi quando i loro desideri incontrano una opposizione: questi sono distruttori “visibili” ed in un certo senso “curabili”.

I distruttivi più problematici nella nostra società sono quelli che potremmo definire “invisibili”, ossia quelli che apparendo normali e conformisti rimuovono un violento odio da cui provengono comportamenti bizzarri, spesso inconsapevoli, eticamente bassi, capaci di distruggere il meglio della propria esistenza e di quella degli altri. Si nascondono sotto un’enorme maschera di normalità ed efficienza, non sanno nemmeno che soffrono psichicamente e non possono di conseguenza parlarne. Sono difficili da identificare in quanto mostrano un comportamento normale, un certo adattamento all’ambiente, una buona relazione con gli altri, buone intenzioni e buona volontà, accettazione delle regole nei loro aspetti formali: di certo sono molti più numerosi di quanto si crede.

Ad un attento esame ravvicinato questi individui rivelano però notevoli distorsioni nei meccanismi interni della personalità, nascoste sotto l’enorme corazza caratteriale che si sono costruiti addosso.

Alcuni genitori possono essere certamente dei distruttori invisibili: specie coloro che non hanno generato i loro figli per una cultura di vita, ma perché costretti da contingenze e costrizioni socio-ambientali. Una conoscenza approfondita permette di tracciare un quadro clinico alquanto patologico di questi individui, nel loro ruolo coniugale così come in quello genitoriale.

Il genitore distruttivo invisibile:

  • non ha emozioni autentiche e i suoi affetti sono congelati e separati dalla vita dei suoi intimi;

  • nell’ambito della vita quotidiana familiare sembra seguire una sorta di giornale di bordo, senza connotare gli eventi di una qualche colorazione affettiva: ad esempio, può parlare della malattia di suo figlio facendo un elenco interminabile degli specialisti consultati, ma quasi mai il suo vissuto emozionale si tinge di angoscia o di depressione;

  • è lontano dall’essere internamente felice e soddisfatto della sua vita matrimoniale e genitoriale, ma sembra accettare benissimo il suo matrimonio o i suoi figli e non rivelare mai a se stesso né agli altri la sua vera realtà frustrante, forse perché non ha il minimo contatto con essa né è capace di averne, ma in compenso saprà ben fare un dettagliato elenco dei tanti “sacrifici per la sua famiglia”, fatti probabilmente per sedare i propri sensi di colpa;

  • è fermamente convinto di aver sacrificato l’intera vita per la sua famiglia, anche quando il partner o peggio il figlio cerca di fargli toccare la realtà proponendogli un calcolo delle ore di tempo trascorse con la famiglia o con i suoi figli, drammaticamente vicino allo zero.

Da questa pur schematica descrizione, che ai più potrà apparire drastica, si comprende che in questi individui prevale un vissuto statico e negativo di antilegame di cui non sono affatto coscienti. Purtroppo affetti intensi come angoscia, rabbia, depressione ed euforia tendono a generare affetti corrispondenti in altre persone, specie se essi “viaggiano nell’aria”, ossia non sono resi consapevoli e neutralizzati in se stessi. Ce lo suggerisce Stephen A. Mitchell quando dice che:

“All’inizio della vita e ai livelli inconsci più profondi per tutta la vita, gli affetti sono evocati a livello interpersonale per mezzo di dense risonanze che si generano tra le persone stesse, senza riguardo per chi, specificatamente sta sentendo cosa.”
(Mitchell, 2002)

Questo livello affettivo fondamentale e senza confini dell’esperienza è stato notato ed esplorato anche da Henry S. Sullivan che già nel 1930 scriveva sul legame empatico per mezzo del quale gli stati affettivi sono trasferiti, come per contagio, dalle figure di accudimento ai bambini, specie se molto piccoli (Sullivan, 1977).

Si tratta di una vera e propria permeabilità affettiva e ci fa capire che ciò che un genitore non ha risolto rappresenta un’esperienza affettiva intensa negativa, capace di penetrare nella psiche di chi lo circonda e di determinare un attaccamento adesivo all’affetto. Gli attaccamenti adesivi agli affetti sono stati descritti spesso come tossicomanici. Fino a tempi recenti, secondo Mitchell, “tossicomanico” era una metafora, ma alcune scoperte recenti della neurofisiologia ci danno ora la possibilità di comprendere le relazioni oggettuali tossicomaniche come vere dipendenze chimiche.

“Van der Kolk (1994) e altri hanno suggerito che i percorsi delle endorfine si stabiliscono nel cervello nel corso dei primi anni di vita e nel contesto delle relazioni oggettuali precoci. Le esperienze affettivamente intense, sia positive sia negative, sono accompagnate dal rilascio di endorfina e così questi stati chimicamente determinati del cervello si associano sia a stati di profonda sicurezza sia a traumi. In questi legami con gli oggetti precoci c’è perciò una fisiologia dell’attaccamento.”
(Mitchell, 2002)

Tutto ciò che, scisso e frammentato, si è inabissato in loro può riversarsi massicciamente sulla psiche dei loro figli, i quali un bel giorno sentiranno un qualche desiderio ossessivo o possessivo (tra cui droghe, alcolici, folli corse in moto o in macchina) soltanto per spezzare quel senso di routine che crea noia e tristezza.

Se in un figlio, anche ormai adulto, emerge un vissuto di angoscia, forte eccitazione o rabbia un genitore dovrebbe chiedersi: “Chi ha iniziato?”, “Chi ha fatto cosa a chi?”. Per un distruttore invisibile però si tratta di domande prive di senso, che anzi complicherebbero una esistenza già tediata. È addirittura più probabile che il figlio inascoltato un giorno riesca a porre delle domande al suo genitore, come: “Perché hai scelto di sposarti ed avere un figlio se in te manca la capacità di un legame o di una relazione amorosa?”.

A questi figli manca ancora oggi quel genitore che ha distrutto in maniera invisibile la loro vita: eppure non era difficile capirlo per tempo, quando il genitore in questione non costruiva con il piccolo un legame fatto di coesione, coerenza e continuità, quando egli esprimeva un affetto piatto e senza sfumature, quando stanco preferiva rivitalizzarsi con la visione di un film piuttosto che arricchire con la sua immaginazione i momenti di gioco che suo figlio aveva a lungo atteso. Spesso il coniuge stesso, con uno sfacciato senso materno o paterno, lo ha coperto e protetto ad oltranza a discapito dei figli, giustificando la sua precaria – o del tutto assente – vita emozionale come logica conseguenza di un’esistenza soffocata dal lavoro e dalle preoccupazioni della vita materiale.

Quando poi questo tipo di genitori porta i loro figli, sospetti “malati psichici”, ad un consulto psicologico o addirittura psichiatrico, l’atteggiamento dell’esperto sarà immancabilmente orientato a rinvenire il problema nel figlio e quasi mai porre utili domande ai genitori: “Chi ha iniziato?”, “Chi ha fatto cosa a chi?”. Meglio essere spiccioli ed immediati, d’altronde “se il problema è del figlio, perché indagare sul genitore?”. In realtà forse è meglio così, poiché in fondo si tratta di genitori che non possono essere né capiti né giustificati, ma soltanto condannati.

Amare qualcuno è diverso dal provare eccitazione o ammirazione, implica tempo e lavoro. Per svilupparsi l’amore deve essere voluto, nutrito e coltivato. Mantenere in vita un amore romantico, un amore filiale richiede sforzo: devi volerlo, inconsciamente o consciamente, a scapito di rischi considerevoli. L’amore non è un accadimento spontaneo, l’odio distruttivo sì.

Note

  1. La collera, la rabbia e l’odio hanno una funzione legittima nel comportamento umano, se rispondono ad un adeguato disturbo dall’esterno. Quando qualcuno percuote o insulta, la rabbia nell’individuo offeso è una reazione normale. Se l’altro continua a farlo l’individuo offeso potrà mutare la rabbia in giusta collera e, se i fatti dimostrano che l’avversario è pronto a nuocere, l’individuo offeso sarebbe un nevrotico se non odiasse.

Riferimenti bibliografici

Rycroft, C. (1981). A critical dictionary of psychoanalysis (Harmondsworth: Penguin books, 1972). Trad. it: Dizionario critico di psicoanalisi (Astrolabio, Roma 1981).

Storr, A. (1975). Human destructiveness (London: Chatto-Heinemann for Sussex University Press, 1972). Trad. it.: La distruttività nell’uomo (Astrolabio, Roma 1975).

Lorenz, K. (1981). Das sogenannte Böse. Zur Naturgeschichte der Aggression (Verlag Dr. G Borotha-Schoeler: Wien, 1963). Trad. it.: Il cosiddetto male: per un storia naturale dell’aggressione (Garzanti, Milano 1981).

Fromm, E. (2005). The anatomy of human destructiveness (Holt, Rinehart and Winston: New York, 1973). Trad. it.: Anatomia della distruttività umana (Mondadori, Milano 2005).

Mitchell, S. A. (2002). Relationality: From Attachment to Intersubjectivity (The Analytic Press: Hillsdale, 2000). Trad. it: Il modello relazionale. Dall’attaccamento all’intersoggettività (Cortina, Milano 2002).

Sullivan, H. S. (1977). The interpersonal Theory of Psychiatry (Norton & C.: New York, 1953). Trad. it.: Teoria interpersonale della psichiatria (Feltrinelli, Milano 1977).

Scientismo, a norma di legge

di Nunzia Tarantini | in Blog, Infanzia, Madri e padri

In un commento al mio articolo “No l’autismo, no!” di circa un anno fa, una collega “minacciata” per aver affrontato nel suo blog la tematica autistica in termini psicodinamici segnalò la presenza del mio suddetto articolo in una specie di lista di proscrizione nel sito di uno strano sodalizio che sembra passare il tempo ad affrontare con atteggiamento rissoso e linguaggio da osteria temi in cui sarebbero sensate ben altre atmosfere, con il puerile obiettivo di attrarre consensi verso uno specifico orientamento.

Naturalmente la collega avrà nel frattempo avuto modo di tutelarsi adeguatamente nelle sedi opportune e i lettori più avveduti avranno saputo discernere. Il mio pensiero in questo anno trascorso è andato invece a quei genitori che in preda al panico e in cerca di soluzioni immediate tendono per ciò stesso ad essere vulnerabili e dovrebbero essere tutelati: continuerò pertanto a contribuire nel mio piccolo soprattutto a questo fine, visto che la polemica bassa e sguaiata non appartiene a questo blog e non porta da nessuna parte.

In realtà quei personaggi sono solo gli ultimi di una lunga serie. Si accodano a certi fanatici della genetica e agli innumerevoli ultraorganicisti (questi sì “ultra”), che non perdono occasione per sostenere che l’approccio a base psicologica è superato, non scientifico e bla bla bla… E questo avviene oggi puntualmente con l’autismo (con lo sconcertante conforto per così dire “militante” di certi genitori) proprio come avviene quotidianamente fin dai tempi di Freud perfino con i sintomi più classicamente nevrotici, con l’evidente intento di sopraffare letteralmente qualsiasi approccio che non sia ispirato a miopi posizioni scientiste, dogmatiche e raziocinanti.

Inutile dire che i cosiddetti media generalisti, con inarrivabile doppiezza, ci mettono sempre del loro: a chi non è capitato di leggere di tanto in tanto titoli del tipo “scoperta la molecola dell’emozione” e simili amenità con tanto di studi a corredo, che al di là della loro stupidità di superficie servono essenzialmente a promuovere e consolidare nel malcapitato lettore la percezione dell’onnipotenza delle scienze positive.

Sono gli stessi che, per dirne una, un giorno sì e l’altro pure piegano un gigante della psicologia come Carl Gustav Jung a “filosofo”, cioè l’esatto contrario di quanto egli stesso teneva a dire di sé, tradendo il fatto di conoscere poco o nulla di quello che scrivono. Col passar del tempo si comprende che non di sola ignoranza si tratta: è la cosiddetta guerra alle «psi», l’interessata resistenza a riconoscere l’esistenza di tutto ciò che ha a che fare con psicologia, psicoterapia, psicoanalisi, con la sola eccezione della psichiatria che quale branca medica è da sempre il catalizzatore di elezione sotto il quale nelle stanze del potere, e quindi per i media generosamente sovvenzionati direttamente e/o indirettamente con denaro pubblico, si cerca di piegare tutto quello che è «psi».

“Nella società ipermoderna l’uomo vive come particella elementare: il senso di solitudine e la difficoltà delle relazioni prendono forma di sintomo, mentre l’immaginario di una soluzione magica, redentrice, capace di riscattare immediatamente l’insoddisfazione dell’esistenza con un colpo d’ala (rapido quanto lo sono premere un pulsante o inghiottire una pillola) condiziona sempre più le aspettative. Questo trasforma le modalità di controllo sociale che, non potendo più far leva su un autorità forte, tramontata insieme all’epoca disciplinare, fanno poggiare le loro istanze su quel surrogato contemporaneo dell’autorità che è l’efficacia della scienza. Il rigore della scienza è la maschera moderna che il potere indossa per fare apparire inevitabili le proprie decisioni. Il confronto politico prende allora le sembianze del dibattito epistemologico, e in anni recenti abbiamo visto la psicoanalisi messa sotto assedio da epistemologi positivisti la cui pretesa neutralità poggiava solo sulla retorica. Non appena si vuol forzare il metodo scientifico al di fuori del proprio campo di pertinenza, che è il mondo dell’oggettività, quel che si produce è lo scientismo, ovvero la veste ideologica di una politica imperialista tesa al conformismo universale. L’uso fuorviante delle parvenze scientifiche a fini di potere, messo in circolazione nelle coscienze dai mezzi di comunicazione di massa, è il Moloch con cui abbiamo a che fare nei nostri tempi, il mostro che addormenta le nostre angosce divorando le nostre brame, che rassicura i cuori e spegne gli aneliti, che finge di suturare la divisione soggettiva velando ai nostri occhi la presa dell’inconscio sulla vita, e che conforma il desiderio dei soggetti al mercato globale delle paccottiglie.”

(M. Focchi, 2007)

Si può condividere ogni singola parola di questo brano della premessa di Marco Focchi a L’Anti-libro nero della psicoanalisi, in cui Jacques-Alain Miller, studioso depositario dell’eredità scientifica e culturale di Jacques Lacan, coordina la risposta all’attacco veemente e a tratti alquanto rozzo portato avanti in Francia dagli autori del Libro nero della psicoanalisi con l’obiettivo visibile di screditare la teoria freudiana, e non sarebbe certo la prima volta, giungendo a tal punto da destituirla di ogni valore e farle terra bruciata intorno, e con l’obiettivo occulto di realizzare un’operazione in cui agiscono quali “portabandiera delle terapie cognitivo-comportamentali, e attraverso queste, e attaccando la psicoanalisi, assecondano la tentazione di ogni burocrazia e di ogni Stato di appoggiarsi a metodi quantitativi, a statistiche e a valutazioni «scientifiche» capaci di offrire regolamentazioni con cui far funzionare l’apparato sociale”.

L’INSERM, Institut national de la santé et de la recherche médicale, si è infatti fatto carico puntualmente di interpretare queste esigenze di parte per una convergenza di interessi: poter ridurre qualsiasi trattamento psicologico a mero protocollo, così da avvicinare l’atto psicoterapeutico a una procedura codificabile che, adeguatamente protocollata, può essere somministrata a seconda della gravità da uno dei corrispondenti operatori della gerarchia medica, come un vera e propria procedura automatica, in un agghiacciante fast-food della terapia.

Alcuni di voi penseranno che questo accade in Francia, e che in Italia per fortuna ciò ancora non accade. Sbagliato. L’ISS, il nostro Istituto Superiore di Sanità recentemente ci ha dato un saggio di quella che evidentemente dovrà essere la musica da suonare anche in Italia: il 26 gennaio infatti sono state presentate a Roma dall’ISS le linee guida per l’autismo e indovinate un po’ che cosa raccomandano alle Regioni (che nel nostro Paese sono organismi che decidono autonomamente in fatto di sanità) come unico strumento terapeutico? L’adozione della tecnica neo-comportamentale ABA (Applied Behaviour Analysis), che tra l’altro è proprio la nostra vecchia conoscenza in nome della quale c’è gente che scorrazza per il web a dispensare “minacce” e affibbiare epiteti poco lusinghieri. Vengono, quindi, escluse tutte le altre esperienze cliniche italiane ed estere che considerano l’individuo nella sua complessità e che utilizzano metodologie diverse per validare i propri studi. Ne deriva, com’è ovvio, il fatto che in ambito clinico si imporrà l’attuazione di una sola linea di trattamento senza possibilità di scelta né da parte del paziente, né dell’operatore.

Le successive osservazioni di Marco Focchi nella citata premessa sono ancora una volta molto più che appropriate:

“Si vede l’ispirazione di fondo di tutta questa spinta regolativa: dietro la parvenza della tutela del paziente c’è la preoccupazione amministrativa di gestire un territorio che fino ad ora si è organizzato da sé, rispondendo non alle esigenze di mercato ma ai quesiti profondi delle persone. Il mercato sazia di oggetti, dove la psicoanalisi offre parole. Sono però le parole che entrano nelle questioni fondamentali dell’esistenza, quelle sulla vita, la morte, il sesso, l’amore. La medicina non ha strumenti per gestire la sofferenza che si genera da tali questioni e che ingombra e assilla il pensiero o si riversa sul corpo. Gli amministratori non avranno mai abbastanza fondi per organizzare soluzioni al problema «Perché gli uomini e le donne vogliono cose diverse dal sesso e si tormentano per questo?». Avvicinarsi a questi temi fa gridare all’ideologia, anatema che lo scientismo getta su tutto ciò che non obbedisce alla sua ideologia, quella fatta di Evidence based Medicine, di dati empirici soggetti alla quantificazione, di una lingua matematica che, sottratta al libro della natura, in cui Galilei l’aveva per primo decifrata, viene imposta all’umano che vi smarrisce la propria libertà. Quel che nelle leggi di natura è universale, trasposto all’umano è totalitarismo. Per questo motivo nell’avanzare imperioso dell’ideologia scientista scorgiamo lo spettro di un autoritarismo che speravamo di aver relegato tra i brutti ricordi.”

(M. Focchi, 2007)

Oggi 2 aprile ricorre la Giornata Mondiale dell’Autismo e gli autorevoli colleghi dell’Istituto di Ortofonologia di Roma promuovono una petizione per riaprire il tavolo sulle linee guida presso l’ISS, così da poter scongiurare quello che si presenta come un sinistro colpo di mano con effetti potenzialmente devastanti e contribuire al riequilibrio tra i molteplici apporti necessari per comprendere e risolvere una questione complessa in cui ci sono in realtà pochissime certezze. Pensateci, in fondo è già successo altre volte in forme diverse: la depressione medicalizzata e il Prozac, l’ADHD e il Ritalin, perfino le numerose pandemie fantasiosamente ipotizzate nell’ultimo decennio e i relativi costosi vaccini ci ricordano che la fabbrica delle malattie è sempre all’opera per farci credere che in noi si è rotto qualcosa e bisogna ripararlo, come in un automobile o in un aspirapolvere, con il farmaco appositamente pensato per quella malattia. E l’approccio cognitivo-comportamentale è in fin dei conti figlio della stessa logica.

Riferimenti bibliografici

Miller, J-A. (a cura di) (2007). L’Anti-livre noir de la psychanalyse (Seuil: Paris, 2006). Trad.it.: L’anti-libro nero della psicoanalisi (Quodlibet, Macerata 2007).

Meyer, C. (a cura di) (2006). Le Livre noir de la psychanalyse. Vivre, penser, et aller mieux sans Freud (Éditions des Arènes: Paris, 2005). Trad.it.: Il libro nero della psicoanalisi (Fazi, Roma 2006).

Greenberg, G. (2011). Manufacturing Depression. The Secret History of a Modern Disease (Simon & Schuster: New York, 2010). Trad. it.: Storia segreta del male oscuro (Bollati Boringhieri, Torino 2011).

Mamma, papà: io non vi ho scelti!

di Nunzia Tarantini | in Adolescenza, Blog, Infanzia, Madri e padri
Rosa, 13 anni, disegna la sua famiglia.

Rosa, 13 anni, disegna la sua famiglia.

“Il coccodrillo ha rapito a una madre il bambino. Alle preghiere di restituirlo, il coccodrillo replica che acconsentirà se la madre darà una risposta vera alla domanda: «Restituirò il bambino?». Se la donna risponde: «Sì», la risposta non è vera, e il coccodrillo non renderà il bambino. Se risponde: «No», in questo caso la risposta è vera. La madre ha quindi perduto in ogni caso il bambino.”

Si tratta di una quaestio crocodilina, riferita da Carl Gustav Jung in Psicologia della figura del Briccone (Carl Gustav Jung, 1954).

“L’esame del legame originario che unisce il figlio alla madre mette in luce i fattori che contribuiscono alla formazione del carattere di una persona adulta, in modo e in misura spesso difficile da determinare”. (Esther Harding, 1969)

Molti psicologi e psicoterapeuti che si basano sull’esame dell’inconscio giungono spesso alla conclusione che se una parte centrale della femminilità è occupata dal confronto di una donna con la maternità, in realtà poche donne affrontano davvero i propri conflitti circa questa nuova condizione.

Sebbene la nascita dei bambini in alcune coppie sia pianificata, in altre invece no, non è detto che ciò significhi che donna e/o uomo si siano disposti a riflettere fino in fondo sulla propria situazione interiore, o perlomeno abbiano provato a chiarire a se stessi i moventi interiori circa l’accettazione o il rifiuto di un figlio: tale inconsapevolezza produce una profonda situazione di ambivalenza nell’atteggiamento genitoriale le cui conseguenze finiranno per ricadere sulla psicologia del figlio.

Fra l’altro se fin dai tempi antichi il legame tra madre e figlio ha generato nell’immaginario collettivo rappresentazioni simboliche o ideali contrastanti – da un lato una madre benevola e protettrice, portatrice di vita e di energia pura, dall’altro una madre castratrice e divoratrice, simbolo di pericolo e persino di distruzione e morte; oppure madre martire da una parte e figlio beato dall’altra – dovremmo saper fare tesoro di questo bagaglio di opposti e senza perderli mai di vista tendere a integrarli per essere liberi di seguire quella via in cui madre e figlio possano soddisfare la propria individualità, senza annullare o soffocare il diritto di ciascuno al proprio sviluppo e alla propria maturità. Questo percorso però risulta spesso impossibile, in quanto manca sia la consapevolezza di ciò che realmente si vuole sia quel pizzico di saggezza che permetta di scongiurare gli effetti distruttivi di un narcisismo patologico con l’accettazione dei limiti del proprio potere fisico, intellettuale ed emotivo.

Nulla può aiutarci a capire perché nel bagaglio di un genitore degno di questo nome non debba mancare quell’atteggiamento umano che chiamiamo saggezza più che attraversare alcuni esempi di vita quotidiana in cui un genitore saggio non è.

Dopo l’ennesima esplosione di violenza verso il figlio un genitore si pente: “È stato solo un momento. Ho perso il controllo” ripete a se stesso. Forse sotto sotto qualcosa montava e il genitore cercava di reprimerla, ma poi è successo. I figli esplodono, poi esplodono i genitori in una distruzione parossistica. Succede. Talvolta l’accesso di ira riporta il sereno, ma più spesso sortisce eventi devastanti. Il genitore parla proprio come chi parla di masturbazione o di altre forme di dipendenza: “Continuo a ripetermi che non lo farò più, ma è una cosa che aumenta e sfoga da sé”. Molti genitori sono soggetti a questi accessi e a vera e propria collera, a trattare il proprio figlio un minuto prima come il bene supremo donato a loro da Dio in persona ed un minuto dopo a ritenere che il proprio figlio sia una “peste bubbonica”.

Una madre ricorda il momento in cui ha avuto suo figlio: era felice, radiosa e fiera di aver generato un bambino di ben quattro chili. Ma quel ricordo è un’isola a sé stante nella mente di questa donna, perché a distanza di cinque anni – l’età attuale di suo figlio – racconta solo i mille e mille sacrifici che ha dovuto fare, le notti passate vicino al figlio, i comportamenti duri e aggressivi “verso questo figlio ribelle”. Sembra che nel vissuto profondo di questa donna sia rimasto nient’altro che mutilazione e sacrificio dovuti a suo figlio. Chi potrebbe esitare nel rispondere alla domanda: “Pensate che sia una maternità accettata, o che sia invece in buona parte rifiutata?”.

Infine un uomo, padre di tre figlie, a cinquantaquattro anni prende coscienza di aver avuto un rapporto deleterio con le figlie. È stato un padre indulgente e superficiale, ma soprattutto assente. Voleva molto bene alle sue figlie, ma solo oggi riesce a capire che la maggior parte del tempo passato al lavoro altro non era che l’altra faccia della noia e della monotonia di vivere il rapporto paterno. Va ripetendosi ciò, non senza provare angoscia, perché ora vede gli esiti di questo rapporto e le conseguenti ferite nelle figlie: la prima figlia è debole e lamentosa, la seconda sembra vivere la vita con una miscela di fretta, frenesia e mancanza di controllo e infine la terza, legatissima alla madre, evita ogni sorta di contatto con il mondo esterno. Non avendo stabilito limiti per se stesso, non percependo la propria autorità interiore e non avendo stabilito un senso di disciplina e di ordine interno, soprattutto nel momento in cui è diventato padre, ha rappresentato un modello inadeguato per le sue figlie, intento com’era a rimanere puer aeternus, eterno fanciullo.

Da che cosa dipendono questi comportamenti è difficile dirlo: si può tentare una spiegazione tramite la figura del doppio.

Il doppio

La bestia

La bestia

La figura del doppio trova largo spazio nel mito, nella letteratura e nell’arte, nel folklore e nel cinema, e naturalmente nella letteratura psicologica e psicoanalitica, dove essa viene proposta come scissione, sdoppiamento o moltiplicazione dell’Io, ma soprattutto come Ombra. La figura del doppio come stato dell’Io è la situazione dell’Io che posto di fronte a se stesso vede uno spettro inquietante, è l’Io che osserva il proprio corpo dopo tanto tempo e ha la sensazione di esserne separato, tale da viverlo come una figura estranea, ritta e gesticolante accanto al proprio io. La figura del doppio sotto forma di Ombra presenta temi più inquietanti: l’immagine non somiglia al suo padrone, ma, al contrario, racchiude tutti gli aspetti che pur facendo parte della sua personalità, sono considerati inaccettabili e quindi rifiutati. L’Ombra rappresenta il lato non accettato della personalità, il lato oscuro di un individuo:

“La somma delle tendenze, caratteristiche, atteggiamenti, desideri inaccettabili da parte dell’Io, nonché delle funzioni non sviluppate o scarsamente differenziate ed, infine, dei contenuti dell’inconscio personale”. (Mario Trevi e Augusto Romano, 2009)

James G. Frazer ritenne che presso molti popoli primitivi il termine che definisce l’anima umana sia scaturito dall’osservazione dell’ombra o del riflesso del corpo nell’acqua (Frazer, in Otto Rank, 1994)

Molti studi basati sul folklore hanno dimostrato che l’uomo primitivo considera il suo misterioso doppio, l’Ombra, come un essere spirituale, ma reale.

“Un uomo del Camerun diceva: «Posso vedere la mia anima tutti i giorni, basta che io vada al sole»”. (Otto Rank, 1994)

Rohde, il più acuto interprete delle credenze e del culto greco dell’anima, ci ricorda che nell’uomo vivente, in cui l’anima sia integra, abita un ospite sconosciuto – un doppio più debole, il suo “altro Io” – che si presenta come la sua psiche, e il suo regno è il mondo dei sogni. Se l’Io cosciente dorme, il suo doppio si sveglia ed agisce.

Stevenson realizza la figura del doppio nel celebre racconto Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde. In questo racconto il doppio misterioso si scinde dall’Io per divenire autonomo e visibile, una sorta di ombra e di riflesso: è la figura del sosia, spesso descritta tramite un quadro paranoico integrato dall’ossessione.

Anche Andersen nella sua dolce favola, L’Ombra, narra la storia di un sapiente che vive nei paesi caldi. L’Ombra si distacca da lui e la ritroverà solo qualche anno dopo, sotto le sembianze di una persona indipendente. Lasciando al lettore la curiosità di leggere questa intrigante fiaba, ricorderemo che Richard Dehmel, in una breve poesia, anche essa intitolata L’Ombra, descrive con molta delicatezza il senso di mistero che prova un bambino davanti alla propria ombra, perché egli non sa che cosa essa sia:

“La cosa più strana è come cambia aspetto,
non con prudenza, come i bambini buoni.
A volte salta in alto più veloce del mio omino di gomma.
A volte si fa così piccola che nessuno può trovarla.”

Otto Rank presenta uno degli studi più penetranti sul problema del doppio nella letteratura e nel folklore elaborando una delle teorie più suggestive ed originali sulla psicologia dell’artista: una figura eroica che con tutte le sue forze cerca di esorcizzare con la sua arte l’Ombra terribile che lo perseguita, cioè la morte (Otto Rank, 1994).

Sigmund Freud nell’approfondire ancor di più la dinamica del doppio, soprattutto come sosia, parla di esso come del perturbante (Das Unheimliche) riferendosi a quella sensazione di spaesamento e di angoscia che cattura quando si è di fronte all’inspiegabile. Egli sottolinea che ciò che è escluso – rimosso – dalla coscienza è proprio ciò che più è noto, il familiare – l’Heimliche (da heim, casa)- che si trasforma nel suo contrario – l’Unheimliche – lo sconosciuto, diventando così fonte di angoscia: appunto il perturbante.

Nella concezione psicoanalitica il concetto di doppio comporta dunque una serie di riflessioni sull’Io, che nelle sue molteplici trasformazioni può addirittura dar vita a figure che sarebbe appropriato definire “comparse patologiche”. Succede soprattutto in persone alienate o in pieno disagio, che non sanno di esserlo, tramite una perdita catastrofica dell’identità che origina un’oscillazione tra un Io cosciente e un “altro Io” che invece affonda le sue radici in una parte profonda, spesso occulta e non visibile, chiamata Inconscio e nello specifico nella parte in cui si situa il rimosso, ossia quel materiale di cui non si vuole e spesso non si può prendere coscienza.

Esistono poi altri casi in cui si ritrova il quadro patologico del doppio: persone che stanno attraversando una trasformazione di qualsiasi tipo possono perdere una parte di se stessi, oppure mostrare al mondo un volto diverso rispetto a ciò che realmente sono, o realizzare una vita monotona e rigida trascurando l’altro aspetto libero e spensierato che la vita stessa o il proprio corpo gli offrono.

In entrambe le situazioni più l’individuo rimuove l’altra parte di se stesso (quella poc’anzi definita “altro Io”), più rischia di renderla autonoma, quasi come una persona reale, in grado di agire in maniera svincolata dal suo padrone. Il doppio è quindi l’effetto di un Io che si moltiplica o si scinde e che nei fatti mostra contemporaneamente l’opposto di ciò che la persona sta vivendo: si tratta di un’irruzione paradossale, proprio come quello che Otto Rank cita come “paradosso del suicida”, quello cioè di chi cerca la morte per liberarsi dell’angoscia di morte. È la stessa morte che in quanto scansata come lutto, come limite e dolore si ripresenta scabrosamente  nella nostra civiltà e nel reale come beffarda figura del doppio o del sosia.

Il doppio materno

Uomo-animale

Uomo-animale

Donne logorate dal continuo conflitto tra voglia e paura di essere madri o da una continua oscillazione tra l’amore per la libertà o per il proprio lavoro e la consapevolezza dei sacrifici che un figlio comporta, o afflitte dal desiderio di essere completamente sole e dalla necessità di volere un figlio possono creare “lo spaventoso fantasma del doppio il quale rappresenta i desideri segreti e sempre repressi dell’anima” (Otto Rank, 1994).

In queste situazioni è uno dei due poli del conflitto che nell’essere rimosso crea la scissione psichica che dà luogo ad un “altro Io”, appunto il doppio, il perturbante, da cui derivano le peggiori pulsioni distruttive.

Donne dominate dal pensiero, fortemente razionali, possono pensare all’assenza di maternità con un forte senso di colpa che crea in loro un profondo disagio, sotto la pressione esterna di genitori che vogliono diventare nonni o di un marito che ambisce a sentirsi completo con la nascita di un figlio. Non è affatto infrequente che il figlio venga concepito in risposta a questo atroce senso di colpa, ed è proprio il rifiuto provato da queste donne nel diventare madri che se non attraversato e opportunamente reso cosciente rischia di costituire il presupposto ideale per un modello di madre dalla doppia personalità: capace di amare e al tempo stesso di odiare ciò che ha generato.

Tra l’altro l’essere umano in generale sembra sempre più pervaso dall’ostinazione a cambiare a tutti i costi il corso della natura, ad imprimere brutalmente il ritmo della propria cieca volontà, a piegare ad una sottocultura o ad una mera convinzione personale finanche la natura di un utero, addirittura in età avanzata, così come l’intimo desiderio di non essere madri. In Occidente – ma ormai anche in un Oriente che va via via cedendo alla irresistibile seduzione che il peggio esercita puntualmente – si assiste quotidianamente al trionfo dell’idea di corpo come macchina, di macchina che deve funzionare secondo uno schema dettato dalle peggiori attitudini della mente umana, all’occorrenza mediante riparazione o sostituzione del componente guasto: e guai a chi osa ipotizzare che non sia saggio considerare l’essere umano come un’automobile o una gru! Saranno pronti per lui appellativi come controverso, irrazionale (sic!), mistico, stregone e via dicendo. Si tratta ormai di un fenomeno ad uno stadio paragonabile alla cecità psichica.

Ma tornando alla figura del doppio, essa è ben visibile in donne ma anche in coppie che con un eccesso di unilateralità della coscienza e con l’uso di un intelletto fortemente razionale sono determinate a programmare ogni cosa: quando mangiare, quando uscire, quando spendere o risparmiare, quando avere figli. Si tratta di soggetti con un occhio fortemente razionalistico che non mancheranno di farci presente che è “ragionevolmente” necessario migliorare le proprie condizioni sociali prima di avere un figlio, in realtà perché vivono un’eccessiva preoccupazione per il futuro, trascurando del tutto le enormi forze dell’inconscio, positive o negative, che ignorate dalla coscienza non possono far altro che trovare la propria espressione in maniera arcaica, spesso distruttiva e letale. Può accadere così che quando decidono che è il momento giusto per avere un figlio è il loro stesso corpo o l’altra parte di se stessi ad opporre resistenza, quasi a negare quel figlio solo ora desiderato.

Forse è difficile essere madri in quest’epoca e per questo bisognerebbe demolire un certo modo di pensare elementare, ingenuo ma soprattutto moraleggiante. Comunemente si tende a pensare che la gran parte delle donne desideri sopra ogni cosa avere un figlio e che solo dopo averlo avuto possa sentirsi a suo agio psicologicamente e fisicamente, così come si ritiene naturale che ogni donna veramente tale debba rallegrarsi al solo pensiero di avere un figlio: dalla donna che sta diventando madre si attendono certi sentimenti, e se lei non li prova si rimane male, ci si sente quasi traditi. Si tratta di una specie di cieco sentimentalismo, frutto di un’illusione senza limiti.

Spesso la gravidanza dalle donne viene vissuta come una scossa violenta o un’esperienza da affrontarsi coscientemente. Può darsi che la risposta emotiva sia di gioia e di accettazione, ma può darsi anche che la cosa venga vissuta come un terribile fastidio che interferisce inaspettatamente nei progetti di vita e di lavoro. Questo tipo di donna obietterà che vuol godersi la vita, le dispiace perdere l’aspetto fisico e la sua energia giovanile, o immagina semplicemente con terrore tutte le sofferenze che deve affrontare e il periodo della crescita di suo figlio con le notti interrotte e i giorni pieni di fatica. Dal punto di vista clinico una donna che sente in questo modo è ancora bambina, la sua vita è orientata verso il piacere e se non trova in sé la forza e il coraggio di affrontare la prova della maternità forse per lei sarà meglio evitarla, in quanto se poi alla fine si ritrova madre – sotto più o meno esplicite pressioni esterne o, peggio, sulla scia di una specie di moda – il doppio materno sarà ben visibile nel rapporto con suo figlio. Nell’adempimento quotidiano con il figlio sarà quasi perfetta, ma nel suo intimo penserà in molti momenti che non era questo il suo ideale. Se in questo tipo di madre rimangono inconsce le sue tendenze egoistiche e narcisistiche da cui era partita, inevitabilmente sopraggiungerà il momento in cui la decadenza del sentimento materno travolgerà il suo psichismo al punto tale da inventare un qualcosa pur di sfuggire alle sue responsabilità: ci sono madri che arrivano a costruirsi perfino dei disastri economici pur di stare distanti da “questa routine asfissiante”.

Altre donne, spesso giovani e meno egoiste, non vogliono comunque la maternità perché interromperebbe la loro vita abituale. Quando, per esempio, una donna sposata conta sul suo lavoro per far sì che il suo reddito, con quello di suo marito, sia sufficiente ai bisogni familiari, rimanere incinta costituisce un pressante problema psicologico. Spesso questo tipo di donna vive una crisi interna, che le provoca conflitti e addirittura scissioni nel proprio intimo. Essa non vuole rimanere incinta per motivi che le sembrano essenziali, ma diventerà ugualmente madre nonostante il suo modo di pensare, in ossequio all’antico comandamento “crescete e moltiplicatevi” che agisce in sé. Forse all’inizio l’esperienza di essere madre sarà unica e irripetibile, ma dopo poche settimane sentirà che il suo lavoro è primario e il figlio è una dolce compagnia serale. Anche qui il doppio materno si farà sentire con conseguenze non meno nefaste.

Talvolta la resistenza della donna alla gravidanza può essere legata a problematiche e risentimenti verso il marito: è il caso in cui rimanere incinta implica l’essere stata ingannata dal marito e spinta in un’esperienza materna contro la sua volontà. Il figlio le ricorderà quindi l’inganno del partner e nel profondo ella coverà un serio rifiuto, interagito nella realtà con sensi di stanchezza, assenza totale di gioco e di contatto, insofferenza verso i gravami che l’esperienza materna comporta. Ricordo una donna che all’epoca della sua prima gravidanza aveva elaborato una frigidità verso suo marito e una totale assenza emozionale verso suo figlio di cui non era affatto consapevole mentre era intenta a lamentarsi di giornate piene di impegno materiale verso figlio e marito. A suo dire, una vita dedicata agli altri.

Una donna dovrebbe impegnarsi senza indugi a riconoscere le sue resistenze alla maternità, dovrebbe sapere che se durante la gravidanza è stata esposta a disturbi come il vomito o la minaccia di aborto, questi fenomeni possono avere una comune base psicogena di cui la resistenza alla maternità può essere il nucleo centrale.

“Solo quando le si fa chiara la natura della sua resistenza e quando essa riconosce che la gravidanza è l’adempimento di un destino che le appartiene e che non le è stato imposto dall’esterno, i disturbi scompaiono e non ritornano più”. (Esther Harding, 1969)

Forse solo in questo caso la sua maternità potrà risultare matura e la relazione con suo figlio benefica.

A noi psicoterapeuti si presentano sempre più spesso donne che, benché madri con diversi figli, non hanno ancora compreso il vero significato di ciò che è avvenuto in loro, né hanno il pur minimo sentore che attraverso di loro si è compiuto un processo creativo.

In passato era naturale per una donna desiderare un figlio, così per un uomo era vissuto come un incredibile miracolo, una cosa unica e favolosa, ma oggi capita spesso di sentire da giovani coppie di non volere bambini o di essere in una qualche impossibilità di averne. La voce del corpo e l’autentica portata dell’atto sono soffocati probabilmente da un atteggiamento razionale e materiale verso la vita. Bene. Ma in questi casi perché spingersi ad averli ugualmente se questo atteggiamento è destinato a perdurare? Forse per soddisfare un antico conflitto morale o per giungere ad una maturità insperata, per acquistare un certo valore sociale o per vivere l’ennesima esperienza di cui non si ha affatto coscienza? A dispetto di tutte le risposte possibili, si può esser certi che un figlio direbbe severo: “Mamma, papà, io non vi ho scelti!”.

Riferimenti bibliografici

Jung, C. G. (1980). Zur Psychologie der Tricksterfigur (1954). Trad. it.: Psicologia della figura del Briccone, in Opere – Vol. 9, Tomo 1: Gli archetipi e l’inconscio collettivo (Bollati Boringhieri, Torino 1980).

Harding, E. (1969). The way of all women (New York: Longmans, Green & Co., 1933). Trad. it.: La strada della donna (Astrolabio Ubaldini, Roma 1969).

Rank, O. (1994). Der Doppelgänger: eine psychoanalytische Studie (Wien: Turia und Kant, 1994). Trad. it.: Il doppio: il significato del sosia nella letteratura e nel folklore (SugarCo, Milano 1994).

Trevi, M. – Romano, A. (2009). Studi sull’ombra (Cortina, Milano 2009).

Il carattere e i suoi squilibri

di Nunzia Tarantini | in Adolescenza, Blog, Infanzia, Prima infanzia

Lucia, 11 anni, disegna la sua famiglia.

Come in tutti i problemi che sono vicini alla formazione del carattere umano, due fattori determinano la normalità e l’anormalità dello sviluppo psichico dell’individuo: le disposizioni ereditarie innate e le influenze regolatrici dell’ambiente sullo sviluppo pulsionale, soprattutto quello della prima infanzia.

Il carattere, secondo Burness E. Moore e Bernard D. Fine, è quell’“aspetto della personalità… che riflette i modi abituali in cui l’individuo riesce ad armonizzare i propri bisogni interni e le richieste del mondo esterno”.

Anna Freud ha visto la formazione del carattere sotto svariati aspetti, tutti correlati tra di loro: la formazione del carattere rappresenta il conseguimento dell’“indipendenza morale”, “l’esito di una lotta dinamica”.

Peter Blos ha presentato alcune concezioni interessanti e utili del carattere. Ad esempio, il carattere è visto come il risultato della “internalizzazione di un ambiente stabile e protettivo”. Sfortunatamente, vengono internalizzati anche ambienti instabili e non protettivi. Nell’infanzia, tuttavia, il carattere è “prevalentemente un modello degli atteggiamenti dell’Io, stabilizzato da identificazioni che… possono subire una revisione estremamente radicale durante l’adolescenza”.

Marie Jahoda propone cinque criteri per la valutazione del carattere normale e cioè:

  • assenza di malattia mentale;
  • comportamento normale;
  • adattamento all’ambiente;
  • unità interiore della personalità;
  • percezione corretta della realtà.

Sigmund Freud definisce il carattere normale come copresenza di lieben und arbeiten (amare e lavorare).

Karl Menninger afferma che il carattere normale è l’adattamento degli esseri umani al mondo e ai rapporti reciproci con il massimo di efficacia e di felicità.

Erich Fromm sottolinea che: “una persona può dirsi normale o sana se è capace di svolgere il ruolo che è tenuta ad assumere in quella determinata società”.

Il comitato degli esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito carattere normale e salute mentale come la “capacità di stabilire relazioni interpersonali armoniose”.

Comunque gli attributi che definiscono il carattere normale sono: maturità, stabilità, realismo, altruismo, senso di responsabilità sociale, effettiva integrazione nel lavoro e nei rapporti umani. Nel carattere patologico prevalgono invece tratti di rigidità comportamentale, identità coartata e automatica, incapacità di adattarsi all’interazione sociale, tendenza alla rigidità e alla ripetitività.

Il carattere del bambino

Un genitore che desidera un carattere normale nel proprio figlio non dovrebbe valutare solamente i fatti materiali, né tantomeno dare importanza solo alla sua salute fisica e mentale, ma dovrebbe soprattutto curare le relazioni affettive che il bambino ha con il suo mondo interno e con l’ambiente esterno, le cui conseguenze sono definitive nell’evoluzione del carattere dell’infante. Le tendenze profonde dell’istinto e delle pulsioni affettive del bambino verso se stesso o verso l’altro (genitori, fratelli e sorelle, maestro/a, amichetto o compagni) si armonizzano o al contrario si oppongono.

Il presupposto fondamentale per poter ottenere buoni risultati nel rapporto del bambino con il proprio mondo interno ed esterno è quello di una migliore conoscenza, da parte degli adulti, del suo mondo psichico.

È intuitivo che se, nonostante la migliore buona volontà, l’adulto (e in particolare il genitore) non saprà rendersi conto dei bisogni istintivi, affettivi e delle manifestazioni emotive del bambino, se non saprà ricordare quella che è stata la propria infanzia, il comportamento infantile resterà per lui molto oscuro ed enigmatico ed egli rischierà di fare del male, anche quando sarà convinto di essere stato realmente buono.

L’incomprensione del bambino da parte dell’adulto è un fatto non più scusabile nella nostra società attuale, che ha accentuato le richieste di un rapido ed efficiente adattamento sociale, moltiplicandole di giorno in giorno, con il risultato non proprio moderno che chi non è preparato per la lotta viene sopraffatto, oppure assume degli atteggiamenti antisociali, o si ammala “nell’anima” chiudendosi a riccio nel suo mondo interno.

Queste tre situazioni sono emblematiche per comprendere i tre tipi di carattere patologico che il bambino puo mostrare: il carattere dipendente (o di continua richiesta), il carattere aggressivo (o di discontrollo degli impulsi), il carattere narcisistico (o di chiusura nel proprio mondo).

Il carattere dipendente infantile

Antonio, 12 anni, disegna i suoi amici.

Il bambino con un carattere dipendente mostra in genere le seguenti caratteristiche:

  • manifestazioni di ambivalenza: copresenza di espressioni al tempo stesso positive e negative di desideri pulsionali, o di tendenze affettive ostili e amichevoli;
  • manifestazioni amplificate di desiderio e forti aspirazioni;
  • presenza di impulsi avidi;
  • tendenza a succhiare cose dolci;
  • sintomi di fame continua o, al contrario, rifiuto di nutrirsi;
  • comportamento simbiotico: eccessiva richiesta di contatto con la madre o con la maestra;
  • pianto eccessivo nella separazione dalla madre, dalla maestra, o da un amichetto;
  • timidezza eccessiva;
  • paura di cose assurde;
  • instabilità nei compiti;
  • capriccio ed egoismo;
  • ribellione se frustrato, remissione se gratificato;
  • noia, tristezza e scoraggiamento verso la scuola;
  • sentimenti di impotenza verso gli amici;
  • dipendenza eccessiva dal voto, dallo studio, dalla televisione, dagli oggetti;
  • fobie: paure degli animali, paura degli oggetti, paura di situazioni anche normali, paura degli elementi naturali;
  • disturbi funzionali: difficoltà ad addormentarsi, lagnanze di natura ipocondriaca (mal di pancia, mal di testa);
  • lamentele “somatiche” per ottenere vicinanza e sostegno.

Da adolescente poi potrà mostrare comportamenti di:

  • rifiuto o, al contrario, richiesta eccessiva di cibo;
  • sentimenti di vuoto;
  • “grandi amicizie e grandi perdite”;
  • dipendenza amorosa;
  • dipendenza eccessiva dalla critica, dallo studio, dal voto;
  • facili innamoramenti e facili cambiamenti;
  • dipendenza da fumo, alcool e droghe.

Il carattere dipendente nel bambino è legato, oltre che a fattori innati, al comportamento materno (o dei sostituti ambientali) soprattutto durante il suo primo anno di vita, ossia durante la fase orale, che si chiama così perché la bocca è la prima parte del corpo del bambino a sperimentare un piacere, il piacere di succhiare latte dal seno materno o dal biberon.

La fase orale si suddivide in due stadi:

  1. il primo si incentra intorno all’attività nutritiva: la qualità del benessere fisico e psicologico del bambino durante la poppata determina i suoi primi sentimenti verso la nascente vita sociale. Un’attenzione continua, certa e amorevole in questo periodo determinerà fiducia (in luogo del suo opposto, cioè sfiducia), che si esprimerà nella prima impresa sociale del bambino, senza che sia preso da eccessiva angoscia o collera.
  2. il secondo si instaura con l’inizio della dentizione, quando il bambino impara che può mantenere cio che gli viene dato – apprende cioè la modalità dell’afferrare – e lo può mordere. In questo stadio, inoltre, il bambino sviluppa il suo primo “senso di cattiveria”, quando il seno, amata fonte di conforto, viene bruscamente ritirato.
Se durante questo periodo:

  • il primissimo desiderio di piacere viene soddisfatto in modo manchevole;
  • la beatitudine dell’età neonatale non è goduta a sufficienza;
  • la stessa epoca è straordinariamente ricca di piacere;
  • ad ogni richiesta di piacere corrisponde il suo immediato soddisfacimento;
  • lo svezzamento è ritardato, difficoltoso o si completa dopo anni;
  • la stimolazione ambientale è eccessiva e/o disarmonica, con presenza coatta intorno al bambino;
  • il contatto fisico è minimo;
  • avvengono continui cambiamenti di baby-sitter o sostituti materni;
  • avviene una brusca separazione dalla madre;
  • si verifica una trascuratezza concreta legata a bisogni reali (ciclo veglia-sonno, regolarità dell’allattamento, ecc.);
  • l’assenza d’amore è esplicita nel contatto e nel dialogo;

allora il bambino può sedimentare al suo interno affetti ed emozioni caotiche che lo porteranno a ricercare l’oggetto per riparare a quell’amore che, gestito per difetto o per eccesso, lo ha reso dipendente.

Una elaborazione ben riuscita del periodo orale rappresenta il primo e forse più importante presupposto di un comportamento futuro normale, dal punto di vista sia sociale che sessuale, ma soprattutto una buona cura della dipendenza.

Se pure l’unità biologica e affettiva della coppia madre/bambino – con il narcisismo della madre che si estende al bambino e il bambino che include la madre nel suo “ambiente narcisistico interno” – è massima in questo periodo, dobbiamo comunque sfatare alcune credenze.

Ad esempio la credenza che la brava madre debba sacrificarsi, e che il bambino si espande a spese della madre, è un mito duro a morire.

La ritroviamo nei pregiudizi più comuni, secondo cui:

  • la madre deve dare sino a soffrire;
  • se non è disposta a sacrificarsi è una cattiva madre;
  • l’amore si dimostra con la pena e con il danno della madre;
  • la rinuncia a se stessa è cosa nobile, esaltante;
  • abbiamo verso nostra madre un debito che non potremo mai ripagare.

Se in condizioni anormali può esistere un fondo di verità nel tema del sacrificio, in condizioni normali le cose non stanno così: non è affatto vero che l’infante si espande a spese della madre, piuttosto è vero che il benessere della madre e quello del bambino formano un tutt’uno.

Il carattere aggressivo infantile

Giovanni, 13 anni, disegna la propria famiglia trasformandola.

Il bambino con un carattere aggressivo mostra:

  • eccessiva attività;
  • eccessiva affettuosità e continuo bisogno di attenzione;
  • ricerca di contatto e stimolazione fisica, per esempio attraverso pressioni fisiche e movimenti intensi;
  • irritazione e pianti violenti quando si nega un giocattolo o quando lo possiede il fratellino;
  • avidità vissuta come desiderio di possedere tutte le cose buone di cui si ha bisogno;
  • aggressività eccessiva vissuta come credenza che gli altri hanno sempre qualcosa in più;
  • continua scontentezza e sofferenza;
  • occhi penetranti che sembrano registrare incessantemente paragoni;
  • forte gelosia verso il fratellino o sorellina appena nati;
  • eccesso di ordine, perfezionismo e controllo mentale a spese della flessibilità, dell’apertura mentale tipica della sua età;
  • troppa obbedienza nel seguire le regole e molta coscienziosità rispetto a doveri come compiti scolastici e faccende di casa;
  • assenza di controllo con forte ostinazione tale da opprimere le loro famiglie e il loro ambiente;
  • rabbia e ostinazione;
  • compulsione e perfezionismo;
  • irritazione, difficoltà e resistenze alle transizioni e ai cambiamenti.

Da adolescente potrà essere:

  • intollerante all’ambiente e sempre pronto ad aggredire;
  • intollerante alle persone e incapace di identificarsi;
  • intollerante alle regole e incapace di controllare le sue pulsioni;
  • isolato e incapace di costruire una relazione con l’oggetto d’amore, ma sempre pronto a distruggerlo;
  • deprivato dai contatti sociali e quindi pericoloso;
  • antisociale con comportamenti di bullismo.

Il carattere aggressivo nel bambino è dovuto, oltre che a fattori costituzionali, al comportamento materno, paterno e dei vari sostituti avuto durante il periodo che va dal primo al terzo anno circa di vita del figlio, ossia durante la fase anale. Per S. Freud “i bambini esperimentano piacere nell’evacuazione dell’urina e del contenuto dell’intestino, e molto presto si sforzano di manipolare queste azioni in modo che la contemporanea eccitazione delle membrane in queste zone erogene possa assicurar loro la massima gratificazione possibile” (S. Freud, 1913-1917).

Il bambino puo quindi ricavare piacere sia con l’eliminazione che con la ritenzione degli escrementi, da qui il termine anale. Il particolare modo di educazione sfinterica messo in atto dalla madre e i suoi sentimenti nei riguardi della defecazione possono avere degli effetti di notevole portata sulla formazione di tratti e valori specifici nel bambino:

  • Se, per esempio, i metodi usati dalla madre sono particolarmente ristretti e repressivi il bambino puo trattenere le sue feci e divenir costipato (carattere ritentivo). Se questo tipo di reazione si generalizza verso altri modi di comportamento, il bambino puo sviluppare quello che viene chiamato il carattere ritentivo, divenendo ostinato e avaro.
  • D’altra parte, di fronte a misure repressive dello stesso tipo, un altro bambino puo dare sfogo alla sua collera espellendo le feci nei momenti meno adatti. Cio in genere viene considerato come il prototipo di tutti i tipi di tratti espulsivi, e cioè: crudeltà, vandalismo, eccessi di collera e accentuata trascuratezza per l’ordine.
  • Se, d’altra parte, la madre è il tipo di persona che supplica il suo bambino affinché vada di corpo e che lo elogia quando egli defeca, egli finisce per convincersi che tutta l’attività della produzione delle feci è estremamente importante. Quest’idea viene spesso considerata come la base della creatività e della produttività.

Ma vediamo altre situazioni di educazione sfinteriale distorta:

  • genitori che costringono prima del tempo il bambino ad un’abitudine per la quale manca ancora la preparazione psichica;
  • genitori che, ignorando il fatto che agli escrementi e alle sue prestazioni escretorie il bambino dà potenza narcisistica, onnipotenza dei propri pensieri e dei propri desideri e considera le feci equivalenti ad un dono da offrire al proprio genitore, svalutano il primitivo senso di potenza presente nell’orgoglio del bambino per l’evacuazione, il cui prodotto è per lui un vero e proprio regalo da offrire: “ L’ho fatta!” urla il bambino che ha appena fatto la cacca nel vasino e che è impaziente di portarla ai suoi genitori, che spesso rispondono con uno sciatto “Buttala via!” mostrando di non comprendere che il bambino con orgoglio la vuole condividere, con cio condividendo il suo vissuto sadico che altrimenti sarebbe inevitabilmente introiettato oppure espulso ferocemente sull’oggetto;
  • donne o madri che redigono un programma minuzioso del tipo: alzarsi, mettersi sul vasino, lavarsi le mani, ecc…;
  • la “madre-sergente” che usa esprimersi così: “A che punto sei? Ore 9.15!”;
  • madri o genitori che non tollerano vedere i loro figli sporcarsi;
  • madri che dispensano i loro figli dalla prestazione della defecazione, somministrando loro senza indugio clisteri o purganti, smisuratamente;
  • educazione sfinteriale ritardata.
Al momento degli sforzi imposti dalla madre per l’addestramento alla pulizia, il bambino puo mostrare rituali diversi e talvolta tenaci:

  • fa i suoi bisogni solo sul proprio vasino;
  • rifiuta di orinare quando è fuori di casa;
  • rifiuta di toccare il pene durante la minzione;
  • ricorre a tutto un cerimoniale per defecare, raccontandosi storie interminabili.

Nell’insieme questi rituali sembrano costituirsi senza angoscia apparente: cionondimeno la madre non deve intimidire il bambino, ma deve scioglierne i conflitti riportandolo ad una dolce disciplina.

In questo periodo sopravvengono poi alcuni comportamenti sintomatici tipici:

  • piccoli rituali e cerimoniali nell’andare a dormire;
  • piccole manifestazioni di insonnia o chiamate notturne, spesso contemporanee ai progressi della motricità e del linguaggio;
  • accessi d’ansia notturna;
  • tic che sono espressione motoria di ossessioni.

Madri rigide che applicano strategie educative in maniera ossessiva o genitori incoerenti che sottopongono i figli ai regimi più diversi – a seconda che siano aggressivi e ansiosi o calmi e positivi – non facilitano il superamento di tali comportamenti, anzi li fissano, talvolta definitivamente, a tale stadio.

Sempre in questo periodo si attivano sentimenti di paura e di fobia dovuti alla formazione del Super-Io primitivo, che nella mente infantile si materializza in fantasie assurde, irreali, fantastiche: draghi, lupi mannari, streghe, orchi, “l’uomo nero” e così via. Ma per il bambino la fantasia è realtà!

Ebbene il Super-Io primitivo è un coacervo di queste terrificanti figure di fantasia: in esse si celano le ombre genitoriali. Inoltre le stesse fantasie sono emozioni distruttive del suo psichismo, proiettate all’esterno e personificate in figure archetipiche, volte a colpire cio che si ama: temendo pero di perdere l’oggetto amato, il bambino preferisce creare un mondo ostile esterno a sé piuttosto che riconoscere la propria aggressività interna. Dopo questa complessa operazione psichica il bambino è comunque sopraffatto dalla paura di subire aggressioni incredibilmente crudeli sia da parte dei suoi oggetti interni, vissuti tramite il Super-Io, sia da parte degli oggetti reali.

Si instaura così un circolo vizioso per cui:

  1. l’angoscia proveniente dal Super-Io spinge il bambino a distruggere i suoi oggetti;
  2. la distruzione si traduce in un aumento dell’angoscia;
  3. l’angoscia a sua volta torna a spingere il bambino contro gli oggetti.

L’angoscia che lo spinge a distruggere gli oggetti ostili per sfuggire ai loro attacchi determina un incremento delle sue pulsioni sadiche.

Questo circolo vizioso costituisce il meccanismo psicologico che è alla base di:

  • tendenze asociali;
  • tendenze criminali;
  • prevalenza di istinti bassi, quali crudeltà, violenza, rabbia, invidia, avidità, egoismo fuori misura;
  • relazioni oggettuali ed emozionali difettose.

Il bambino reagisce al Super-Io primitivo dalle mille perfide fantasie non con paura, ma addirittura con una vera e propria fobia verso l’oggetto crudele (streghe, orchi, ecc. ), che rasenta il panico.

Se non si tiene conto di questi vissuti fobici del bambino, continuando a:

  • metterlo, o minacciare di metterlo, per punizione in una stanza o in un armadio, al buio;
  • utilizzare racconti spettrali o fiabe dell’oscuro bosco delle fate, con orribili streghe e giganti, o impaurirlo con figure “cattive” quale l’“uomo nero”, al solo scopo di indurlo all’ubbidienza;
  • permettere la visione di filmati e racconti non adatti alla sua età;
  • accogliere con facilità il bambino nel lettone o lasciare la luce accesa nella sua stanza sino a che si addormenti, dando così inconsciamente prova che esiste una qualche base obiettiva che giustifichi la fobia;
  • lasciar cadere, piuttosto che risolvere, paure estemporanee per persone, animali domestici, temporali, scarafaggi, mosche, rumori e via dicendo;

il bambino crescerà con forti sentimenti di inferiorità, sentimenti di colpa, aggressività ed invidia.

Quindi nel rapporto col bambino è bene:

  • che la madre eviti di immettervi ansietà a lui intollerabili;
  • non accentuare il peso della responsabilità verso gli educatori;
  • evitare, quali adulti, atteggiamenti le cui motivazioni possano risultargli oscure o confuse;
  • non adottare tecniche rozze quali suggestione, persuasione o seduzione;
  • evitare misure repressive e coercitive.

Il carattere narcisistico infantile

Stefania, 8 anni, disegna la sua famiglia.

Il bambino con un carattere narcisistico:

  • preferisce starsene in un angolo o giocare solo con le sue cose;
  • tende ad essere irrequieto e a camminare in modo inquieto e senza uno scopo preciso;
  • talvolta guarda fisso davanti a sé, come se fosse assente o allucinato;
  • parla poco ed tende ad evitare contatti personale;
  • è poco ricettivo agli stimoli dell’ambiente, né trova in sé la giusta spinta per vivere la sua età, senza provarne disagio e restando “tranquillamente passivo”;
  • trascura il proprio aspetto esteriore, spesso mangia senza appetito;
  • è soggiogato dal mondo della sua immaginazione, tanto da avere difficoltà aimpegnarsi in cio che succede nel qui e ora;
  • talvolta apatico e letargico, dà l’impressione di non avere quella spinta interna alla socializzazione e all’esplorazione motoria tipica della maggior parte dei bambini;
  • mostra goffaggine e comportamenti poco modulati;
  • puo essere in grado di far fronte agli urti, alle cadute, ai tagli, alle abrasioni e agli oggetti che possono causare bruciature o gelo ma solo perché mostra di non sentirne il dolore;
  • spesso assorbito in se stesso, difficile da coinvolgere, ha un apparente disinteresse per l’esplorazione delle relazioni e per i giochi e gli oggetti stimolanti;
  • mostra di stancarsi facilmente;
  • già da molto piccolo può iniziare a interessarsi agli oggetti per mezzo dell’esplorazione solitaria anziché in un contesto interattivo;
  • è disattento, facilmente distratto o preoccupato, specialmente quando non è attratto da un compito o da un’interazione;
  • in età prescolare tende a rifugiarsi nella fantasia quando si confronta con minacce esterne;
  • si annoia facilmente nel giocare con amici preferendo un gioco solitario, in cui mostra spesso grande immaginazione e creatività.
Da adolescente può mostrare:

  • una forte rabbia o al contrario vergogna ed umiliazione come reazione alle critiche;
  • una tendenza a sfruttare gli altri per i propri interessi;
  • un eccesso di grandiosità, cioè sensazione di essere importanti, anche in modoimmeritato;
  • di sentirsi unico o speciale, e compreso solo da certe persone;
  • fantasie di illimitato successo, potere, amore, bellezza;
  • di sentirsi in diritto di meritare privilegi più degli altri;
  • eccessive richieste di attenzione o ammirazione;
  • mancanza di empatia verso i problemi altrui;
  • persistente invidia.

Il carattere narcisistico nel bambino è dovuto, oltre che a fattori costituzionali, al comportamento materno, paterno, genitoriale, e dei vari sostituti avuti durante il periodo che va pressappoco dal terzo al quinto anno di vita. È noto che in questa fase detta “fallica” il bambino scopre, per cosi dire, gli organi genitali e impara a ricavarne sensazioni di piacere mediante la stimolazione manuale. Durante questo periodo gli organi genitali vengono investiti di potenti cariche energetiche, anche se ci vorrà ancora del tempo prima che tutta l’eccitazione sessuale si concentri sui genitali e venga scaricata dalla loro interazione nel rapporto sessuale.

Inoltre nel bambino in questa fase si manifesta il complesso di Edipo.

Durante lo stadio fallico, il comportamento del bambino è caratteristicamente intrusivo per i maschi e ricettivo per le femmine, non soltanto in rapporto alla zona genitale ma anche per cio che riguarda il modo di maneggiare gli oggetti, il passeggiare e il calpestare, il chiacchierare e il porre domande. Diviene per lui importante anche provare i limiti della curiosità e dell’aggressività.

L’influenza che questo periodo eserciterà sulla personalità futura dell’individuo dipende in larga misura dal modo in cui i genitori riescono a sviluppare un senso di partecipazione, responsabilità e iniziativa delle inclinazioni e degli interessi del bambino, e non lo gravano con i vari sensi di colpa. In questo stadio lo sviluppo di una forma di Super-Io più crudele e rigida di quella che si struttura nella fase anale puo avere degli effetti disastrosi su tutta la vita successiva.

Ma come può questa forma di Super-Io essere sviluppata dall’ambiente circostante?

Le situazioni che potenziano il Super-Io determinando nel bambino angosce di castrazione possono essere molteplici. Le più comuni:

  • vedendo il figlio che si tocca i genitali, il genitore lo minacciano di “tagliargli il pene”;
  • l’ambiente può ridicolizzare o schernire un bambino che gioca con i suoi genitali e che neppure se ne rende conto o una bambina che arrossisce perché dondolandosi sull’altalena scopre che quel piacere può diventare eccitazione;
  • perfino le esperienze che oggettivamente non contengono alcuna minaccia possono essere fraintese da un bambino che già si sente colpevole: per esempio scoprire che esistono “esseri senza pene” mediante l’osservazione del genitale femminile;
  • dopo un’operazione chirurgica, la paura di castrazione puo spostarsi dalla zona operata – le tonsille, per esempio – alla parte genitale;
  • un bambino, che sia stato presente alla decapitazione di un pollo, o impressionato da favole circa la decapitazione, puo sostituire all’idea di decapitazione quella di castrazione.

Spesso il bambino narcisista diventa tale:

  • perché è rinforzato e guidato all’interno di una famiglia o di una istituzione ad un’eccessiva idealizzazione del modello (padre, madre, nonno, insegnante) e si relaziona illusoriamente soltanto con esso, escludendo ogni tipo di relazione reale (illusione di idealizzazione);
  • perché vive una fantasia simbiotica di essere identico a qualcun altro, di avere contenuti psichici interscambiabili, per cui penserà che “lui e sua madre” o “lui e suo padre” si bastano a vicenda e il mondo esterno è automaticamente designificato in quanto privo di valore (illusioni di identicità o illusione di gemellarità);
  • perché ha sviluppato fantasie idealizzanti verso uno o più personaggi di fantasia creati ad arte dalla potente industria dell’intrattenimento che attivano in lui una onnipotenza che potremmo esprimere così: “Io ed il mio eroe ci bastiamo, siamo un tutt’uno ed io con lui mi sento forte” (illusione di grandiosità).

È chiaro che si tratta di dinamiche pericolose, perché il bambino finisce per negare l’esistenza dell’oggetto esterno con cui avrebbe potuto avere una sana relazione: invece con il modello, il genitore o il suo beniamino non potrà mai avere una relazione alla pari, ma il bambino è pero convinto di averla. Lo si puo già immaginare da adulto con in mano il suo gadget tecnologico, a dimenticarsi la sua donna all’area di servizio o peggio ancora il figlio chiuso in macchina sotto il sole.

Ma allora il narcisista non riesce ad amare un oggetto d’amore?

Non riesce ad amare, perché ha paura: intuisce che amare vuol dire mettersi in gioco e teme che dare si risolva in un perdere.

Forse il narcisista ha paura che l’oggetto del suo amore non sia alla sua altezza?

In realtà è lui che teme di non essere all’altezza dell’oggetto d’amore.

Il narcisista nasconde un innegabile senso o sentimento di inferiorità verso l’oggetto esterno, vissuto come fattore di sofferenza, ma soprattutto come agente straniero e perturbatore dell’equilibrio (già oltremodo precario) e della tranquillità del suo Io: l’oggetto esterno è il suo oggetto-trauma (ossia la sua dannazione), che, non curato, col tempo si trasforma in “oggetto folle”. In realtà basterebbe impegnarsi seriamente verso l’oggetto esterno per essere già sulla via della guarigione.

Riferimenti bibliografici

Wolman, B. B. (1974). Manuale di psicoanalisi infantile. Vol. I: I fondamenti (Astrolabio-Ubaldini, Roma 1974).

Warren, N. – Jahoda, M. (1975). Gli atteggiamenti (Boringhieri, Torino 1975).

Menninger, K. (1979). Teoria della tecnica psicoanalitica (Boringhieri, Torino 1979).

Fromm, E. (2004). Io difendo l’uomo (Bompiani, Milano 2004).

I codici “segreti” dei tratti infantili disturbati

di Nunzia Tarantini | in Blog, Infanzia, Prima infanzia, Scuola e istruzione

Con quali criteri e con quali tecniche di osservazione siamo in grado di prevenire nel bambino la nascita di un sintomo, riconoscendolo prima che si strutturi e si renda manifesto? Quali sono i metodi per percepire il pericolo prima che il sintomo inizi ad agire?

Nel rispondere a queste domande si cercherà di usare un linguaggio semplice, così da permettere all’educatore (esperto o genitore che sia) di comprendere nozioni di solito inaccessibili ad un’esatta comprensione per la complessità dei termini usati o delle dinamiche descritte. D’altronde i fraintendimenti dovuti alle difficoltà di comunicazione fra gli psicoanalisti e coloro che ne applicano le conclusioni sono estremamente frequenti.

Quando un osservatore esperto, ad esempio un terapeuta, osserva un bambino che nella prima infanzia mostra dei problemi, dirige la sua attenzione su un’ampia gamma di fattori quali:

  1. le cure della madre e le espressioni del suo amore;
  2. la partecipazione di genitori ed insegnanti ai giochi e alla vita quotidiana del bambino;
  3. la comprensione delle gioie e del dolore del bambino;
  4. nel bambino, la tolleranza nella privazione o la felicità nel ricevere un dono;
  5. il grado di indulgenza e di privazione che genitori ed educatori hanno esercitato verso il bambino.

L’ultimo punto, in fondo, sottintende una domanda: quanta indulgenza e quanta privazione deve somministrare un genitore al proprio figlio? Intanto diciamo subito che più il bambino cresce ed acquista indipendenza più il genitore deve mantenere equilibrato il rapporto tra indulgenza e privazione: un genitore deve saper privare il bambino di un piacere, per capire se quest’ultimo tollera la frustrazione, ma deve anche saper indulgere, in altri casi, per comprendere se suo figlio sa godere, essere felice, gioire di qualcosa che gli è stato donato e, soprattutto, mostrare gratitudine.

C’è un modo sicuro per gestire il premio o la punizione – perché di questo si sta parlando – e fa capo all’Io maturo del genitore ed alla sua capacità di essere un buon modello.

In un bambino con disturbi il terapeuta indaga sugli atteggiamenti parentali. È sull’atteggiamento materno e sull’ampio spettro di sfumature (amorevole, caloroso, seduttore, freddo, rifiutante ed iperprotettivo) che si concentra gran parte della sua attenzione. Dell’atteggiamento materno non si considerano solo i gesti ed il loro significato, né la solo superficie di un comportamento, ma si analizzano soprattutto le motivazioni inconsce che danno colore a tale comportamento e ne determinano le sfumature.

Per esempio si cerca di capire quelle che sono state le motivazioni, soprattutto nel loro significato più profondo, che hanno portato a generare un figlio. Le domande più comuni sono:

  • il figlio è stato voluto o non voluto?
  • il figlio è nato per suggellare un’unione felice?
  • il figlio è nato per cementare un’unione che si va disgregando?
  • il figlio è nato in una famiglia con basi solide, in cui i sacrifici necessari per allevarlo sono accettati di buon grado, o è nato da genitori che presi dalla propria lotta per l’indipendenza o per l’esistenza risentono del carico che si impone loro?

È fondamentale indagare sul malessere dei genitori se si vuole comprendere anche in parte il malessere dei figli: Helene Deutsch, per esempio, ha richiamato l’attenzione sul gioco di fantasie distruttive spesso inconsapevoli di un genitore, che possono minacciare l’integrità psichica del figlio.

In ultimo l’indagine si fa più strutturata e si passano in esame le situazioni di pericolo tipiche a cui il piccolo essere umano può essere sottoposto:

  • le condizioni ambientali sfavorevoli, specie quelle di un certo spessore (morte della madre o del padre, abbandono del figlio, ospedalizzazione, separazione traumatica di uno dei genitori, ecc.): purtroppo queste ed altre condizioni ambientali, creano un inevitabile effetto negativo sulla psiche del bambino;
  • le inclinazioni di attaccamento morboso, ascrivibili al periodo definito “orale”, in cui il bambino dipendeva totalmente dalla madre e dall’ambiente circostante;
  • le inclinazioni di irrequieta aggressività o di forte possesso, ascrivibili al periodo definito “anale”, in cui al bambino sono stati educati gli sfinteri e sono stati dati i primi limiti;
  • le inclinazioni alla chiusura e al ritiro eccessivi, ascrivibili al periodo definito “fallico-narcisista”, in cui si promuoveva nel bambino la ricerca dell’altro e l’esplorazione dell’ambiente esterno;
  • il tipo di relazione oggettuale che il bambino ha vissuto nel passato e tuttora vive: la paura di perdere l’oggetto amato o al contrario l’indifferenza verso l’oggetto significativo;
  • gli impulsi distruttivi verso un fratellino o un amichetto, la capacità di far fronte alla paura, o ancor peggio all’angoscia, nel vivere nuove situazioni e ricercare nuovi amici.

Queste ed altre situazioni possono essere sintetizzate secondo un quadro molto orientativo, di facile consultazione. Se un bambino intorno ai quattro-sei anni di età:

  • ha continui terrori notturni;
  • è manifestamente o continuamente distruttivo e violento;
  • ruba, morde e si comporta con crudeltà verso bambini più piccoli;
  • è eccessivamente dipendente e lamentoso;
  • presenta ansie manifeste e frequenti fobie;
  • ha notevoli disturbi del linguaggio come balbuzie e mutacismo ostinato;

allora, anche in presenza di uno solo di questi tratti, è possibile prevedere un futuro disturbo infantile strutturato.

Ci sono poi casi in cui l’osservazione clinica di certi altri tratti in un bambino suggerirebbe la presenza di un disturbo psichico, ma troppo spesso dai genitori, o addirittura dagli stessi educatori, quegli stessi tratti sono accolti con gioia, come segni di un buon sviluppo, soprattutto morale, oppure ingenuamente come prove di eccentricità o di precocità infantili.

Secondo Susan Isaacs, tra i tratti più comuni troviamo:

  • un’acquiescente docilità;
  • assenza di ostilità e di aperte provocazioni;
  • estrema precisione nel ripiegare e riporre i vestiti prima di andare a letto;
  • sforzi attenti e continui per non versare acqua, nell’atto di bere o di lavarsi;
  • intolleranza assoluta per il benché minimo sporco su mani, bocca o vestiti;
  • un’attenta e premurosa sollecitudine per la mamma o il papà, che siano ritornati a casa e non gli sia capitato niente di spiacevole;
  • una gentilezza meticolosa;
  • una smisurata ed enfatica avversione ad atteggiamenti altrui caratterizzati da una sana aggressività verso altri bambini o verso gli animali, che dal bambino vengono invece vissuti come crudeli;
  • attenzione rituale alle preghiere;
  • frequenti tenerezze e manifestazioni di affetto;
  • un desiderio ardente di essere buono e bravo;
  • una grande ambizione a fare da solo;
  • docilità alle punizioni;
  • la buona educazione da salotto;
  • voce bassa e movimenti controllati.

Tutti questi tratti, che sono gli effetti di un profondo sentimento di colpa e di un’ansia nevrotica nel bambino, spesso inorgogliscono o, peggio ancora, divertono il genitore.

Per dare più senso a quanto detto finora e per meglio convalidare quello che si ritiene sia davvero accaduto nell’infanzia di questi bambini con tratti disturbati e quali siano realmente le esperienze soggettive attraversate dagli stessi è utile narrare la storia di un bambino con tratti nevrotici, il quale, curato tempestivamente, ha conquistato un’infanzia felice. Si tratta della storia di quello che Daniel N. Stern definirebbe un “bambino clinico”, ossia quel bambino che si fa conoscere giorno dopo giorno nelle varie sedute di terapia. Questa narrazione può essere utile come riferimento per il genitore che vuole saperne di più, ma naturalmente in nessun caso deve essere utilizzata per diagnosticare autonomamente il proprio figlio.

Un bambino troppo buono

Un bambino di 4 anni, che qui chiameremo Gianni, figlio unico, di costituzione esile, biondo dagli occhi azzurri, è stato portato in terapia dai genitori: essi percepiscono il loro figlio come un bambino buono e trattabile, ma incapace di mostrare ostilità o forme positive di aggressività. Gianni di recente ripeteva ossessivamente un certo gioco in presenza delle insegnanti della scuola materna, e ciò ha preoccupato ancora di più i suoi genitori e li ha determinati ad agire.

La domanda principale che entrambi pongono a se stessi e alla terapeuta è volta a sapere se l’eccessiva acquiescenza, l’assenza assoluta di ostilità e ribellione nel bambino, e infine la tendenza a ripetere quel gioco, fossero da inquadrare come tratti infantili disturbati dal carattere temporaneo, che con la crescita sarebbero venuti meno così come erano nati perché legati ad un timore fisiologico del bambino, oppure se fossero tratti legati ad un’ansia conflittuale con al di sotto angosce ancora più profonde, che col tempo sarebbero inevitabilmente cresciute. L’interrogarsi di questi genitori è stato fondamentale e risolutivo: fin da subito essi hanno saputo dare il giusto peso ad indizi comportamentali disturbati del proprio figlio senza attardarsi ad attendere l’emergere di sintomi e comportamenti patologici, ma soprattutto escludendo senza indugi la possibilità di accogliere con gioia e orgoglio il fatto di avere un bambino “troppo buono”.

Nel colloquio iniziale furono da subito evidenti le qualità positive della madre nell’occuparsi di Gianni e nello stesso ambito essa riferì della preoccupazione provata nei primi contatti con il piccolo (Mangiava abbastanza? Restava sveglio abbastanza a lungo per mangiare? Poteva sopportare ora il bagnetto o era meglio farlo crescere?): per i primi quattro mesi di vita fu descritto da tutti come un bebè affascinante, bello, il classico bimbo pieno di vita, ma in seguito appariva fiacco, con un relativo ritardo nello sviluppo della motricità grossolana.

La madre in quella fase leggeva numerosi libri di puericultura e poneva molte domande al pediatra, esprimendo una quantità di preoccupazioni molto maggiori del consueto circa la salute del bambino. Il marito, con cui era sposata da cinque anni, era un libero professionista ed ella descriveva questi anni come i più felici della sua vita. Nello stesso colloquio il marito riferiva che nell’educazione del figlio “faceva fare alla moglie” che “se la cavava abbastanza bene”. Inoltre, entrambi raccontano che le insegnanti della scuola materna avevano riferito che, nonostante Gianni si facesse notare per il suo vivace e attraente senso dell’umorismo, ed era capace di mettersi a provocare con la più bella risata da bricconcello – ma forse quello che già sfuggiva alle stesse insegnanti era che la risata costituiva in realtà lo sfogo principale delle sue ansie in quella fase – ripeteva un gioco spiritoso, inventato da lui, che lo divertiva moltissimo: disegnava su di un foglio bianco delle linee orizzontali intersecate da linee verticali, quasi a voler raffigurare delle larghe cancellate, poi tagliava il foglio in tanti riquadri e raccontava che stava aprendo quel grande cancello.

In terapia Gianni ripete lo stesso gioco. I suoi disegni:

Gianni, 4 anni, disegna liberamente.

Gianni, 4 anni, disegna liberamente.

Gianni, 4 anni, disegna liberamente.

Gianni, 4 anni, disegna liberamente.

Gianni, 4 anni, disegna liberamente.

Gianni, 4 anni, disegna liberamente.

Gianni, 4 anni, disegna liberamente.

Puntualmente dopo aver disegnato “i suoi cancelli” divide il foglio in tante parti esclamando: “ora il cancello è aperto!”. All’esclamazione seguiva una risata cordiale e contagiosa.

Che cosa ci sta dicendo Gianni con questo gioco? Molteplici sono i significati, ma faremo riferimento solo ai più evidenti:

  1. Gianni, tramite questo rituale grafico, ci sta mostrando la sua aggressività inibita (il cancello disegnato);
  2. nello strappare il foglio (l’ambiente) su cui ha visualizzato la sua inibizione (il cancello), il bambino ci suggerisce che è dotato di una buona dose pulsionale per penetrare nell’ambiente;
  3. nella “coazione a ripetere” (Wiederholungszwang) il gioco è visibile, come ci ricorda Freud (J. Laplanche – J.-B. Pontalis, 2003), la funzione diretta a far primeggiare il trauma, ad emanare dei messaggi che spesso l’ambiente non recepisce. Nei fatti clinici è molto semplice intuire quello che Gianni ci sta dicendo: ripetendo il gioco lui tenta di superare il suo trauma (chiusura) e quando strappa il foglio dicendo che il cancello è aperto crede di aver superato il problema. È chiaro che tutto ciò avviene nella sua fantasia, mentre nella realtà Gianni avrebbe bisogno di un appoggio che gli dia protezione e sicurezza, altrimenti le sue paure tenderebbero ad aumentare, fino a temere la perdita dei suoi oggetti d’amore.

Ma vediamo quello che Gianni disegna quando la terapeuta gli mostra la sagoma di un corpo femminile¹ e lo invita a disegnare nel corpo tutto ciò che vede con la sua fantasia.

Gianni, 4 anni, disegna su una sagoma predisegnata di un corpo umano femminile.

Intanto il bambino colora interamente il corpo umano femminile definendolo “il corpo della mia mamma”. L’immagine interiore del corpo materno è disegnata dal bambino come spazio colorato e i colori vivi che egli usa farebbero pensare che disponga di una vita affettiva intensa con la madre, ma ben presto ci si rende conto che il corpo colorato della madre serve al bambino solo per meglio nascondere quello che fra un po’ disegnerà: al centro della pancia materna Gianni disegna se stesso dicendo che per magia è ritornato dentro al corpo di sua madre. In effetti raffigura il suo corpo quasi al centro del ventre materno e si presenta sotto forma sia di oggetto allungato, una forma che esprime la potenza del suo agire e l’esplosione del suo desiderio, che di oggetto annerito (le gambe e i suoi piedi sono scuri), quasi a voler esprimere la forza delle sue parti basse e corporee, di voler stare lì dove si è posizionato. Il corpo colorato della madre, segno di eccitazione affettiva in Gianni, è quindi usato per nascondere la sua vera fantasia regressiva: voler instaurare con la madre un’antica (cioè legata all’infanzia) unità duale, per vivere il tutt’uno con lei.

In questo modo il bambino desidera avere con la madre una forma di relazione oggettuale molto infantile e primitiva (M. Balint, 1991) che gli garantisca protezione e sicurezza. Questa situazione è nota come “regressione al grembo materno” (M. Balint, 1991), l’unica capace di dare quiete, calore, oscurità, conforto di suoni monotoni, assenza di desideri, fine della coazione a verificare costantemente la realtà, eliminazione di ogni sospetto, ecc. È l’essere del bambino nella pancia materna, per poter rivivere quella sensazione oceanica come il paradiso che con la nascita è andato perduto. Questo spiegherebbe nel piccolo Gianni il suo amore oggettuale passivo (S. Ferenczi), ossia il desiderio di essere amati piuttosto che amare, ma anche il suo istinto ad aggrapparsi (I. Hermann), condizioni che inevitabilmente lo portano a non avere nozione dell’ambiente esterno e a non vivere neanche la minima voglia di percepire gli altri.

Vediamo invece che cosa disegna quando gli si presenta la sagoma di un corpo maschile:

Gianni, 4 anni, disegna su una sagoma predisegnata di un corpo umano maschile.

Egli dà subito un’identità alla sagoma, quindi al corpo, dicendo che è il suo papà. Inizia a colorarlo con la stessa veemenza mostrata in precedenza per il corpo femminile. Anche qui usa colori accesi, segno di una buona eccitazione affettiva verso il padre, ma il ritmo della sua mano cambia quando inizia a colorare la parte bassa del corpo padre. Il celeste diventa quasi un colore pastello, adatto a sedare le più forti tensioni, che Gianni utilizza per rappresentare il mare in cui situa ancora una volta il proprio corpo, su di una tavolozza scura. Poi racconta che nuota nell’acqua seguendo il sole, che nel frattempo inizia a disegnare all’interno del corpo paterno in alto a sinistra, i cui raggi lunghi e penetranti sembrano raggiungere il bambino. Alla fine esclama: “il bambino segue il sole!”. Dal disegno di Gianni possiamo quindi trarre più conclusioni che lo riguardano:

  1. la simbolizzazione paterna è celeste, luminosa e radiosa, segno di un grande desiderio di avere il padre con sé;
  2. il padre, con il quale il bambino si identifica, è vissuto (nella sua fantasia) mediante un’esplosione visiva del sole;
  3. il padre disegnato come sole segna il faro che Gianni vuole seguire per uscire dall’utero e costruire la sua sicurezza narcisistica, che lo condurrà verso l’ambiente esterno, non più temuto ma addirittura desiderato.

La densità degli affetti e dei fantasmi che appare nello studio di questi disegni, fa di essi una specie di fotografia istantanea dell’organizzazione psichica di Gianni. È evidente che siamo in possesso di elementi figurativi rivelatori di alcuni disturbi che col tempo possono strutturarsi al punto da rovinare la vita del bambino.

Nel corso delle varie sedute Gianni disegna, gioca, associa piccoli residui di sogni, ma soprattutto dialoga. Egli è portato dalla terapeuta alla scoperta della sua aggressività e al desiderio di usarla come strumento per divertirsi e scoprire nuove dimensioni del suo comportamento. È proprio questo l’inizio dello sblocco della sua affettività. Le insegnanti notano adesso che il gioco ripetitivo non ha più quella frequenza coatta che aveva un tempo: il bambino preferisce giocare e lottare con gli altri bambini.

La terapeuta gli presenta, dopo circa tre mesi, il disegno delle figure genitoriali.

Gianni, 4 anni, disegna sulle sagome predisegnate di una coppia genitoriale.

Gianni piuttosto che vederci i suoi genitori identifica altro: nell’uomo vede se stesso ed indica la donna come sua madre. Inizia a colorare la madre usando gli ormai consueti colori accesi e all’interno del busto disegna dei fiori, ponendovi al di sotto un cuore rosso: Gianni simbolicamente dota la madre di affetto (il cuore) e giovinezza (i fiori). Poi passa a colorare se stesso usando ancora colori accesi: all’interno del maglione sta raffigurando un cerchio di cerchi, ma improvvisamente passa a disegnare nelle sue mani un fucile che punta verso la madre. Si rassicura subito dicendo che è un giocattolo, ma nel frattempo Gianni ha “ammazzato” la dipendenza dalla madre “rompendo” di scatto il cerchio di cerchi che rappresenta proprio il circolo vizioso della dipendenza: sicuro della sua aggressività e al riparo dal senso di colpa può ora sentirsi libero di aggredire, senza paura di perdere l’oggetto amato.

È doveroso chiudere questo lungo articolo con parole che lasciano il segno.

“Quando nel nostro lavoro analitico noi vediamo costantemente come la risoluzione della precoce ansia infantile non solo diminuisca e modifichi gli impulsi aggressivi del bambino, ma procuri anche una soddisfazione ed un uso di essi più valido dal punto di vista sociale, come il bambino mostri un desiderio sempre crescente e profondamente radicato di essere amato, di amare e di essere in pace con il mondo che lo circonda, e quanto maggior piacere e beneficio, e quale diminuzione di ansia gli derivi dall’appagamento dei suoi desideri, – quando vediamo tutto questo, siamo pronti a credere che ciò che ora sembra una realtà utopistica possa veramente avverarsi in quel lontano giorno in cui, come io spero, le analisi dei bambini diventeranno una parte così importante nell’allevamento di ogni individuo quale è ora l’educazione scolastica. Allora forse quell’atteggiamento ostile, frutto della paura e della diffidenza, che è latente in grado maggiore o minore in ogni essere umano e che centuplica in lui ogni impulso di distruzione, allora soltanto forse cederà il posto a sentimenti di maggior benevolenza e fiducia verso i propri simili e le genti potranno coabitare nel mondo in un’atmosfera di pace e di affetto maggiore di adesso”. (M. Klein, 1956)

Note

  1. Questo strumento è noto come disegno del corpo umano. È un test proiettivo, basato sul disegno, il cui uso permette di avere indicazioni sulle fantasie primitive infantili, soprattutto su fantasie primarie di possesso, di attacco e di chiusura, la cui origine è da cercarsi nella vita istintuale della primissima infanzia e dell’infanzia stessa del bambino. Sia il contenuto delle fantasie primitive che di quelle tardive, quest’ultime ascrivibili soprattutto all’infanzia, non è espresso dal bambino tanto verbalmente (in quanto il suo Io è praticamente inesistente) quanto rivelato tramite il sogno, gli incubi, il gioco e il disegno.

Riferimenti bibliografici

Ferenczi, S. in Kris, E. (1977). Selected Papers (New Haven-London: Yale University Press, 1975). Trad. it.: Gli scritti di psicoanalisi (Boringhieri, Torino 1977)

Deutsch, H. (1977). The Psychology of Woman, A Psychoanalytic Interpretation. 1: Girlhood (New York: Grune & Stratton, 1944). Trad. it.: Psicologia della donna. Studio psicoanalitico. Vol. 1: L’adolescenza (Boringhieri, Torino 1977).

Isaacs, S. (1975). Childhood and after (London: Routledge and Kegan Paul, 1948). Trad. it: L’infanzia e dopo. Saggi e studi clinici (La Nuova Italia Editrice, Firenze 1975).

Stern, D. N. (1987). The Interpersonal World of the Infant (New York: Basic Books, 1985). Trad. it.: Il mondo interpersonale del bambino (Bollati Boringhieri, Torino 1987).

Laplanche, J. – Pontalis, J.-B. (2003). Vocabulaire de la psychanalyse (Paris: Presses Universitaires de France, 1967). Trad. it.: Enciclopedia della psicoanalisi. Tomo primo (Laterza, Bari 2003)

Balint, M. (1991). Primary Love and Psycho-analytic Technique (1952). Trad. it.: L’amore primario. Gli inesplorati confini tra biologia e psicoanalisi (Raffaello Cortina Editore, Milano 1991).

Hermann, I. in Balint, M. (1991). Primary Love and Psycho-analytic Technique (1952). Trad. it.: L’amore primario. Gli inesplorati confini tra biologia e psicoanalisi (Raffaello Cortina Editore, Milano 1991).

Klein, M. (1956). The early development of conscience in the child, in AA. VV., Contribution to Psychoanalysis (London: The Hogarth Press, 1950). Trad. It.: Sviluppo precoce della coscienza nel bambino, in Rivista di Psicoanalisi 1956-3, pp. 163-172.

 

[stextbox id=”alert”]

Avvertenza
È indispensabile sottolineare che per questi e altri casi esposti, i disegni sono test psicodiagnostici che consentono solo un orientamento alla diagnosi, e non la diagnosi stessa.

[/stextbox]

 

Del saper apprezzare piccoli capolavori

di Nunzia Tarantini | in Blog, Infanzia, Scuola e istruzione

 

In regalo il calendario 2011 di Ri-vivere.

Con l’inevitabile imperfezione – anche temporale – che un po’ contraddistingue i blog, ormai soprattutto quelli che con termine un po’ superato possiamo definire “amatoriali” (cioè che danno qualcosa ai lettori per il solo gusto del gesto, e con meno secondi fini possibile), per festeggiare (anche questo 100° post di Ri-vivere) ecco due regali: Continua a leggere »

Ci sono ancora adulti?

di Nunzia Tarantini | in Blog, Madri e padri, Scuola e istruzione

Il ritratto dell'Infanta Margarita di Diego Velazquez (1653)

Il ritratto dell’Infanta Margarita di Diego Velazquez (1653)

Quando Georges Canguilhem, filosofo ed epistemologo francese, in una conferenza al “College philosophique” si chiedeva se ci fossero ancora adulti, ossia se esistesse uno stato della vita con caratteristiche di adultità, non plasmato da regressioni e conflitti infantili, indirettamente rifletteva e faceva riflettere sulla difficoltà dell’adulto di diventare maturo ed equilibrato ed in quanto tale riuscire ad essere un buon esempio nella vita dei propri figli.

In effetti forse divenire adulti non è dato a tutti. Continua a leggere »

I conflitti dell’anima infantile: le ossessioni

di Nunzia Tarantini | in Blog, Infanzia, Madri e padri

Anna, 10 anni, disegna la sua famiglia.

Anna, una bambina di 10 anni con tratti ossessivi, disegna la sua famiglia: pensa di essere stata perfetta nel suo disegno, di aver messo tutti gli elementi della sua famiglia, ma quando le si fa notare che nel disegno manca la madre si irrigidisce e non vuole più disegnare, lasciando incompleta la raffigurazione di sé (mancano le scarpe). Inoltre, quando le si chiede se crede di aver scritto tutto in modo corretto, lei risponde di essere certa di sì, pur avendo sbagliato a scrivere la parola “famiglia”.

Questa bambina, che qui chiameremo Anna, richiama i casi clinici di alcuni bambini ossessivi-coatti analizzati da Lewis L. Judd. Secondo uno dei tratti fondamentali tracciati da Judd uno o entrambi i genitori diventano per il bambino l’oggetto di sentimenti fortemente ambivalenti e apertamente aggressivi (P. L. Adams, 1980). Anche Anna ha una cattiva relazione con la madre, parla di lei come di una madre che non la comprende e si rifiuta di disegnarla, scegliendo al suo posto la coppia dei nonni a cui si sente più intimamente legata. Continua a leggere »