Prima della guerra, l’uomo distruttivo

Dettaglio del dipinto "Saturno che divora i suoi figli" di Francisco Goya.

Dettaglio di “Saturno che divora i suoi figli” (1819-1823) di Francisco Goya, Museo del Prado, Madrid.

L’uso equivoco del termine aggressività ha creato grande confusione in molti campi della psicologia. Il termine è stato applicato indiscriminatamente al comportamento dell’uomo che difende la propria vita in caso di attacco e a quello del bandito che ammazza la sua vittima per procurarsi denaro, o perfino a quello del sadico che tortura un prigioniero.

Se usato in maniera così maldestra, il concetto di aggressività può significare far uso della forza per esprimere i propri sentimenti e per raggiungere i propri obiettivi o al contrario per intimidire, far colpo, manipolare e talora sottomettere gli altri. Se atti che hanno lo scopo di distruggere, di proteggere, di costruire, vengono denotati con la stessa identica parola, non c’è proprio alcuna speranza di capirne la causa, che non è affatto comune, poiché si tratta di fenomeni completamente diversi.

Non si possono, quindi, far rientrare nello stesso calderone termini come aggressività, distruttività, odio, crudeltà, sete di sangue. Charles Rycroft nel suo Dizionario critico di psicoanalisi sotto la voce aggressione scrive:

“La tendenza pressoché universale degli analisti ad equiparare aggressività ed odio, distruttività e sadismo, è in contrasto sia con la sua etimologia (adgradior: avanzo) sia con il suo tradizionale significato di dinamismo, autorevolezza, espansività, pulsione.”
(Rycroft, 1981)

Anthony Storr ne La distruttività nell’uomo sottolinea che:

“Se vogliamo comprendere la distruttività dell’uomo, è necessario che distinguiamo tra l’aggressività come ‘sforzo attivo’, la pulsione diretta a padroneggiare l’ambiente, che è desiderabile e necessaria per la sopravvivenza, e l’aggressività come ‘ostilità distruttiva’, che in genere deploriamo, e che sembra ostacolare la sopravvivenza, quanto meno della specie, se non dell’individuo.”
(Storr, 1975)

Fu Alfred Adler a distinguere la pulsione aggressiva (Aggressionstrieb), frutto di una spinta istintuale e di autoconservazione, la pulsione distruttiva (Destruktionstrieb), frutto di una spinta irrazionale e distruttiva – o, peggio ancora, di frantumazione – ed in ultimo la pulsione di impossessamento (Bemächtigungstrieb), frutto di istinti ostili, odio e ambivalenza.

Aggressività benigna ed aggressività maligna

Si deve comunque ad Erich Fromm una netta distinzione, divenuta famosa, fra l’aggressione difensiva e reattiva quale espressione di aggressività benigna e la distruttività, la crudeltà e l’odio – propensioni specificamente umane a distruggere e a ricercare il controllo assoluto – quali aggressività chiaramente maligne.

Prima ancora di lui, Konrad Lorenz, autorevole studioso del comportamento animale e particolarmente di quello di pesci e uccelli, decise di avventurarsi in un campo di cui aveva scarsa esperienza e competenza, quello del comportamento umano e contribuì negli anni Sessanta a chiarire le idee con la pubblicazione di diversi libri sull’aggressione umana. In particolare Il cosiddetto male divenne un bestseller e fece una profonda impressione su un ampio settore del pubblico colto.

Lorenz portò avanti la tesi secondo cui il comportamento aggressivo dell’uomo, quale si manifesta nelle guerre, nel crimine, nelle liti personali e in tutte le modalità di comportamento distruttive e sadiche, deriva da un istinto innato, programmato filogeneticamente, che cerca di scaricarsi e aspetta l’occasione propizia per esprimersi. Inoltre asseriva che la violenza ha origine dalla nostra natura animale, da un’irrefrenabile pulsione aggressiva la quale non è un reazione a stimoli esterni, ma una eccitazione interiore che cerca di scaricarsi al di là dello stimolo esterno.

Ma i limiti insiti in una teoria dell’aggressività come istinto innato furono subito visibili.

Innanzitutto una simile teoria rischiava di diventare facilmente un’ideologia, pronta a sopire la paura per quello che potesse accadere e a razionalizzare il senso di impotenza. Peraltro i gruppi umani presentano, rispettivamente, gradi così fondamentalmente diversi di distruttività, che sarebbe stato impossibile spiegare i fatti col presupposto che distruttività e crudeltà fossero innate. Infine i diversi gradi di distruttività possono essere correlati ad altri fattori fisici e alle differenze esistenti nelle rispettive strutture sociali.

A supporto di una teoria dell’aggressività non innata ma frutto dell’ambiente, Fromm in Anatomia della distruttività umana ci ricorda che se l’uomo fosse dotato soltanto dell’aggressione biologicamente adattiva che egli condivide con i suoi antenati animali sarebbe un essere relativamente pacifico: se tra gli scimpanzé vi fossero degli psicologi, questi ultimi certamente non considererebbero l’aggressione un fenomeno preoccupante sul quale scrivere dei libri. Dunque, continua Fromm:

“L’uomo si differenzia dagli animali perché è assassino; l’unico primate che uccida e torturi membri della propria specie senza motivo, né biologico né economico, traendone soddisfazione.”
(Fromm, 2005)

Ed è questa aggressività maligna biologicamente non-adattiva e non-programmata filogeneticamente, che costituisce il vero problema e il pericolo per l’esistenza dell’uomo come specie (Fromm, 2005).

Se inoltre l’aggressività benigna è legata all’istinto di conservazione e di difesa, è sotto il dominio dell’Io normale o maturo, capace di dar senso alla vita dell’individuo e di potenziarla, soprattutto alle passioni che incoraggiano la vita, al servizio della vita (forme che potenziano la vitalità e l’integrazione superiore e producono un maggior senso di gioia), di contro l’aggressività maligna è legata all’istinto di morte e distruzione, sotto il dominio di un Io fragile e monco, capace di distruggere la vita, il corpo, lo spirito, capace di distruggere non solo la vittima, ma anche l’aguzzino, tale da costituire un paradosso: la vita che si rivolta contro se stessa nel tentativo di darsi senso (Fromm, 2005). Questa distinzione rappresenta una base ottimale per un’ipotetica ricerca di cause, atta a farci comprendere il fenomeno ed operare, quando si può, una trasformazione.

Nei fatti reali l’aggressività maligna è una passione o un insieme di passioni umane radicate nel carattere. Essa come aggressività è sempre una forza vitale ma bloccata nel suo sviluppo ed intrisa di elementi di collera, rabbia ed odio¹. Rappresenta la risultante di risposte ad esigenze esistenziali frutto della storia della persona e non della sua semplice natura. Si manifesta sotto forma di masochismo, sadismo, narcisismo, distruttività, avidità, omicidio, menzogna. È specificatamente umana, non deriva dall’istinto animale e non contribuisce alla sopravvivenza fisiologica dell’uomo.

Se per curare l’aggressività benigna la condizione principale consiste nel diminuire quei fattori realistici che la mobilitano tra i quali i più importanti risultano essere la riduzione del narcisismo soprattutto nell’ambito del gruppo familiare, la capacità di responsabilizzare i membri familiari a cooperare e a non creare gerarchie inutili e nocive, il rinnovare nelle famiglie l’etica delle responsabilità dei genitori verso i propri figli creando per essi basi materiali e psichiche dignitose, al contrario l’aggressività maligna, soprattutto quella legata alla struttura caratteriale, comporta una presenza costante, sebbene non sempre espressa, di tratti distruttivi nel carattere, difficilmente curabili. Questo perché la componente invidiosa, avida e bramosa che trasforma un’aggressività normale in distruzione ed odio, specialmente nelle fasi infantili non è considerata patologica, né è curata.

Aggressività nel rapporto primario

L’aggressività nella nostra civiltà si manifesta effettivamente assai presto nel bambino ancora piccolissimo, prima ed indipendentemente da ogni evidente frustrazione. Ma bisogna notare che il genitore (o il suo sostituto) non avverte sin dai primi giorni di vita l’aggressività distruttiva del bambino come problema, né organizza in maniera volontaria e consapevole una strategia per educare i suoi primi impulsi istintuali.

Ed è così che:

  • il primo rapporto emozionale del bambino con l’ambiente, ossia il rapporto orale o cannibalico, in cui il bambino mette in bocca ogni cosa – prova il mondo assaggiandolo – ed incorpora tutto ciò che è mangiabile in maniera bramosa, non viene regolato dall’ambiente circostante, in particolare dalla madre;

  • il secondo rapporto emozionale del bambino, ossia il rapporto anale o sadico in cui il bambino, come dice E. Jones, non solo deve essere disabituato dallo sporcare con gli escrementi il suo corpo e ciò che lo circonda, ma deve anche abituarsi ad una regolarità temporale delle funzioni intestinali, porta il genitore a non vedere queste fonti del piacere e a regolare il flusso in maniera soddisfacente;

  • il terzo rapporto emozionale del bambino ossia il rapporto fallico-narcisistico nel quale il bambino scopre, per così dire, gli organi genitali e impara a ricavarne sensazioni di piacere mediante la stimolazione manuale, non viene affatto regolato dal genitore, ma al contrario spesso sufficientemente castrato.

Sulla base dell’esperienza psicoanalitica è noto che se alcune porzioni dei tre rapporti appena descritti non sono state curate a sufficienza potranno portare nell’adolescente o nell’uomo adulto i peggiori tratti distruttivi del carattere: in altre parole esiste una stretta connessione tra il trascurare questi tre periodi di crescita dell’energia psichica infantile e lo sviluppo della crudeltà e dell’ostilità verso se stessi o verso gli altri.

Inoltre questi tratti ostili si organizzano spesso all’interno di un’intera costellazione familiare per niente conscia dell’esistenza di tendenze distruttive e che pertanto tende a lasciarle indisturbate come in una specie di limbo intrapsichico.

Distruttività nel gruppo familiare

Quello che segue è un elenco di alcune situazioni che agevolano la persistenza degli impulsi distruttivi in un gruppo familiare e sociale:

  • predominio dell’odio sull’amore;
  • invidia primaria molto intensa anche per costituzione;
  • incapacità di contenere il bisogno, sentito come irresistibile;
  • situazioni in cui predominano persone, soprattutto adulti, vittime di passioni non governate: passioni tristi e depressive, oppure gaie ed espansive;
  • manifestazioni di violenza massiccia spesso senza scopo, senza motivo e senza riflessione;
  • incapacità, perlopiù genitoriale, di crescere e quindi di fungere da contenitore;
  • mancanza di figure buone nei primi periodi di vita o inabilità a farne uso;
  • struttura ed organizzazione di tipo narcisistico della personalità dei membri della famiglia, con stile arrogante e borioso.

Purtroppo non sono solo queste le costellazioni familiari in cui persistono pulsioni distruttive, né si deve instaurare una causalità lineare fra frazione disagiata e con disadattamento sociale ed incremento della distruttività. È piuttosto la gente cosiddetta normale o quasi normale a creare problemi di distruttività familiare, ben coperti da una maschera di adattamento.

Se una famiglia con stile nevrotico o, peggio, psicotico può produrre, tramite i suoi membri, atti sintomatici o problematiche psichiche – angosce, tensioni, fobie, pensieri coatti, comportamenti catastrofici, ecc. – che la inducono a consultare uno psicoterapeuta e quindi ad emettere un segnale all’esterno, di contro in una famiglia cosiddetta adattata i comportamenti anormali ed antisociali dei suoi membri non giungono facilmente ad essere sottoposti all’attenzione di uno soggetto esterno qualificato, per esempio uno psicoterapeuta: solo poche voci isolate si potranno lamentare di loro all’esterno, così una tale famiglia continuerà a tenere  all’interno un comportamento disturbato, senza alcun insight sull’anormalità del proprio stato mentale.

In altre parole, gli individui distruttivi non sono solo i disadattati psichici, i cronicamente inetti e dipendenti, i pervertiti, gli schizoidi, gli alcolisti, i tossicomani, i vagabondi e tutti coloro che si servono della violenza per ottenere i loro scopi (gli psicopatici aggressivi). Il termine distruttivo può designare una varietà così ampia di esseri umani atipici, soprattutto quel genere di persone che, prive di significato ed intrise di scarsa cultura e consapevolezza, continuano ad essere certi di comportarsi nel migliore dei modi e di essere persone moralmente accettabili.

Il distruttore “invisibile”

Distruttive non sono solo quelle persone che non hanno mai imparato a controllare i loro impulsi legati all’odio o quelle che non hanno sviluppato un tipo di coscienza morale che potrebbe distoglierli dall’utilizzare questi impulsi malvagi quando i loro desideri incontrano una opposizione: questi sono distruttori “visibili” ed in un certo senso “curabili”.

I distruttivi più problematici nella nostra società sono quelli che potremmo definire “invisibili”, ossia quelli che apparendo normali e conformisti rimuovono un violento odio da cui provengono comportamenti bizzarri, spesso inconsapevoli, eticamente bassi, capaci di distruggere il meglio della propria esistenza e di quella degli altri. Si nascondono sotto un’enorme maschera di normalità ed efficienza, non sanno nemmeno che soffrono psichicamente e non possono di conseguenza parlarne. Sono difficili da identificare in quanto mostrano un comportamento normale, un certo adattamento all’ambiente, una buona relazione con gli altri, buone intenzioni e buona volontà, accettazione delle regole nei loro aspetti formali: di certo sono molti più numerosi di quanto si crede.

Ad un attento esame ravvicinato questi individui rivelano però notevoli distorsioni nei meccanismi interni della personalità, nascoste sotto l’enorme corazza caratteriale che si sono costruiti addosso.

Alcuni genitori possono essere certamente dei distruttori invisibili: specie coloro che non hanno generato i loro figli per una cultura di vita, ma perché costretti da contingenze e costrizioni socio-ambientali. Una conoscenza approfondita permette di tracciare un quadro clinico alquanto patologico di questi individui, nel loro ruolo coniugale così come in quello genitoriale.

Il genitore distruttivo invisibile:

  • non ha emozioni autentiche e i suoi affetti sono congelati e separati dalla vita dei suoi intimi;

  • nell’ambito della vita quotidiana familiare sembra seguire una sorta di giornale di bordo, senza connotare gli eventi di una qualche colorazione affettiva: ad esempio, può parlare della malattia di suo figlio facendo un elenco interminabile degli specialisti consultati, ma quasi mai il suo vissuto emozionale si tinge di angoscia o di depressione;

  • è lontano dall’essere internamente felice e soddisfatto della sua vita matrimoniale e genitoriale, ma sembra accettare benissimo il suo matrimonio o i suoi figli e non rivelare mai a se stesso né agli altri la sua vera realtà frustrante, forse perché non ha il minimo contatto con essa né è capace di averne, ma in compenso saprà ben fare un dettagliato elenco dei tanti “sacrifici per la sua famiglia”, fatti probabilmente per sedare i propri sensi di colpa;

  • è fermamente convinto di aver sacrificato l’intera vita per la sua famiglia, anche quando il partner o peggio il figlio cerca di fargli toccare la realtà proponendogli un calcolo delle ore di tempo trascorse con la famiglia o con i suoi figli, drammaticamente vicino allo zero.

Da questa pur schematica descrizione, che ai più potrà apparire drastica, si comprende che in questi individui prevale un vissuto statico e negativo di antilegame di cui non sono affatto coscienti. Purtroppo affetti intensi come angoscia, rabbia, depressione ed euforia tendono a generare affetti corrispondenti in altre persone, specie se essi “viaggiano nell’aria”, ossia non sono resi consapevoli e neutralizzati in se stessi. Ce lo suggerisce Stephen A. Mitchell quando dice che:

“All’inizio della vita e ai livelli inconsci più profondi per tutta la vita, gli affetti sono evocati a livello interpersonale per mezzo di dense risonanze che si generano tra le persone stesse, senza riguardo per chi, specificatamente sta sentendo cosa.”
(Mitchell, 2002)

Questo livello affettivo fondamentale e senza confini dell’esperienza è stato notato ed esplorato anche da Henry S. Sullivan che già nel 1930 scriveva sul legame empatico per mezzo del quale gli stati affettivi sono trasferiti, come per contagio, dalle figure di accudimento ai bambini, specie se molto piccoli (Sullivan, 1977).

Si tratta di una vera e propria permeabilità affettiva e ci fa capire che ciò che un genitore non ha risolto rappresenta un’esperienza affettiva intensa negativa, capace di penetrare nella psiche di chi lo circonda e di determinare un attaccamento adesivo all’affetto. Gli attaccamenti adesivi agli affetti sono stati descritti spesso come tossicomanici. Fino a tempi recenti, secondo Mitchell, “tossicomanico” era una metafora, ma alcune scoperte recenti della neurofisiologia ci danno ora la possibilità di comprendere le relazioni oggettuali tossicomaniche come vere dipendenze chimiche.

“Van der Kolk (1994) e altri hanno suggerito che i percorsi delle endorfine si stabiliscono nel cervello nel corso dei primi anni di vita e nel contesto delle relazioni oggettuali precoci. Le esperienze affettivamente intense, sia positive sia negative, sono accompagnate dal rilascio di endorfina e così questi stati chimicamente determinati del cervello si associano sia a stati di profonda sicurezza sia a traumi. In questi legami con gli oggetti precoci c’è perciò una fisiologia dell’attaccamento.”
(Mitchell, 2002)

Tutto ciò che, scisso e frammentato, si è inabissato in loro può riversarsi massicciamente sulla psiche dei loro figli, i quali un bel giorno sentiranno un qualche desiderio ossessivo o possessivo (tra cui droghe, alcolici, folli corse in moto o in macchina) soltanto per spezzare quel senso di routine che crea noia e tristezza.

Se in un figlio, anche ormai adulto, emerge un vissuto di angoscia, forte eccitazione o rabbia un genitore dovrebbe chiedersi: “Chi ha iniziato?”, “Chi ha fatto cosa a chi?”. Per un distruttore invisibile però si tratta di domande prive di senso, che anzi complicherebbero una esistenza già tediata. È addirittura più probabile che il figlio inascoltato un giorno riesca a porre delle domande al suo genitore, come: “Perché hai scelto di sposarti ed avere un figlio se in te manca la capacità di un legame o di una relazione amorosa?”.

A questi figli manca ancora oggi quel genitore che ha distrutto in maniera invisibile la loro vita: eppure non era difficile capirlo per tempo, quando il genitore in questione non costruiva con il piccolo un legame fatto di coesione, coerenza e continuità, quando egli esprimeva un affetto piatto e senza sfumature, quando stanco preferiva rivitalizzarsi con la visione di un film piuttosto che arricchire con la sua immaginazione i momenti di gioco che suo figlio aveva a lungo atteso. Spesso il coniuge stesso, con uno sfacciato senso materno o paterno, lo ha coperto e protetto ad oltranza a discapito dei figli, giustificando la sua precaria – o del tutto assente – vita emozionale come logica conseguenza di un’esistenza soffocata dal lavoro e dalle preoccupazioni della vita materiale.

Quando poi questo tipo di genitori porta i loro figli, sospetti “malati psichici”, ad un consulto psicologico o addirittura psichiatrico, l’atteggiamento dell’esperto sarà immancabilmente orientato a rinvenire il problema nel figlio e quasi mai porre utili domande ai genitori: “Chi ha iniziato?”, “Chi ha fatto cosa a chi?”. Meglio essere spiccioli ed immediati, d’altronde “se il problema è del figlio, perché indagare sul genitore?”. In realtà forse è meglio così, poiché in fondo si tratta di genitori che non possono essere né capiti né giustificati, ma soltanto condannati.

Amare qualcuno è diverso dal provare eccitazione o ammirazione, implica tempo e lavoro. Per svilupparsi l’amore deve essere voluto, nutrito e coltivato. Mantenere in vita un amore romantico, un amore filiale richiede sforzo: devi volerlo, inconsciamente o consciamente, a scapito di rischi considerevoli. L’amore non è un accadimento spontaneo, l’odio distruttivo sì.

Note

  1. La collera, la rabbia e l’odio hanno una funzione legittima nel comportamento umano, se rispondono ad un adeguato disturbo dall’esterno. Quando qualcuno percuote o insulta, la rabbia nell’individuo offeso è una reazione normale. Se l’altro continua a farlo l’individuo offeso potrà mutare la rabbia in giusta collera e, se i fatti dimostrano che l’avversario è pronto a nuocere, l’individuo offeso sarebbe un nevrotico se non odiasse.

Riferimenti bibliografici

Rycroft, C. (1981). A critical dictionary of psychoanalysis (Harmondsworth: Penguin books, 1972). Trad. it: Dizionario critico di psicoanalisi (Astrolabio, Roma 1981).

Storr, A. (1975). Human destructiveness (London: Chatto-Heinemann for Sussex University Press, 1972). Trad. it.: La distruttività nell’uomo (Astrolabio, Roma 1975).

Lorenz, K. (1981). Das sogenannte Böse. Zur Naturgeschichte der Aggression (Verlag Dr. G Borotha-Schoeler: Wien, 1963). Trad. it.: Il cosiddetto male: per un storia naturale dell’aggressione (Garzanti, Milano 1981).

Fromm, E. (2005). The anatomy of human destructiveness (Holt, Rinehart and Winston: New York, 1973). Trad. it.: Anatomia della distruttività umana (Mondadori, Milano 2005).

Mitchell, S. A. (2002). Relationality: From Attachment to Intersubjectivity (The Analytic Press: Hillsdale, 2000). Trad. it: Il modello relazionale. Dall’attaccamento all’intersoggettività (Cortina, Milano 2002).

Sullivan, H. S. (1977). The interpersonal Theory of Psychiatry (Norton & C.: New York, 1953). Trad. it.: Teoria interpersonale della psichiatria (Feltrinelli, Milano 1977).

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