Il bambino picchiato

di Nunzia Tarantini | in Adolescenza, Blog, Infanzia

Usare violenza sul bambino o picchiarlo, equivale sempre e comunque ad abusare di lui. Le conseguenze di questo atto sono gravi e si protraggono per tutta la vita.

Il corpo del bambino conserva dentro di sé l’esperienza dell’aggressività subita, aggressività che l’individuo adulto rivolgerà contro altri individui, e forse principalmente verso i suoi propri figli.

Comunque un bambino picchiato può anche rivolgere l’aggressività che ha ricevuto contro se stesso, sprofondando in crisi depressive, cercando disperatamente aiuto nella droga, ammalandosi gravemente, e in ultimo cercando la liberazione del corpo tramite il suicidio. In ogni caso la crudeltà subita da piccoli annienta il compito biologico che il corpo ha di preservare la vita, ostacolandone il funzionamento.

Nel vissuto dell’adulto picchiato da piccolo prevale la paura e la ricerca ostentata di un amore protettivo e sicuro per tutta la vita: questo perché il cosiddetto amore che il bambino maltrattato ha provato nei confronti dei genitori non è stato un vero amore, ma un legame gravato di aspettative e illusioni, un insieme di legami distruttivi, in cui neanche una auspicabile richiesta di perdono (che spesso non appartiene a genitori violenti) consente alle ferite di rimarginarsi e tanto più di guarire.

È fondamentale capire che chiedere perdono non comporta automaticamente la guarigione dell’offeso e che i genitori che fingono nei sentimenti non possono sentire improvvisamente un bisogno di sincerità o vivere valori come integrità, consapevolezza o responsabilità: per essi è difficile spezzare la coazione a ripetere il comportamento aggressivo, così come liberarsi dal cappio della morale tradizionale, grazie alla quale hanno intrappolato i figli tramite la violenza.

Il bambino picchiato, così come il bambino violentato, vive anche in età adulta la paura del castigo, specie quando, percependo i propri sentimenti di rifiuto che vorrebbe tradurre in parole verso i suoi genitori, continua a sentirsi minacciato dagli stessi i quali si mostrano ancora più aggressivi verso di lui quando esprime una verità mai detta: “Siete genitori del male!“.

La sofferenza provata nell’infanzia può altresì confluire nello sbilanciamento da una parte nell’obbedienza cieca ad una religione, dall’altra in cinismo, ironia, e varie forme di estraneazione da sé, spesso mascherate da tratti filosofici e sociali. Il tratto della violenza infantile è abitualmente messo a tacere con l’aiuto di droghe, sigarette e farmaci: alla fine però inesorabilmente il corpo si ribella, perché, nettamente più veloce della ragione (che si attarda grazie al Falso Sé), esprime la parte autentica del Vero Sé che può tradurre o una infinita solitudine, nel soffocamento di espressioni spontanee e creative, o un amore autentico, ma solo e soltanto in presenza di una incondizionata separazione dai genitori-carnefici.

Su, fa’ la cacca nel vasino!

di Nunzia Tarantini | in Adolescenza, Blog, Infanzia, Prima infanzia

Il bambino che si trova tra l’inizio del secondo anno di vita e il terzo vive lo stadio anale. In questo stadio prevalgono due tendenze: la prima è caratterizzata dalla defecazione, in cui il bambino trae il suo piacere dall’evacuazione, ossia, dall’eliminazione degli escrementi; nella seconda predomina la ritenzione degli escrementi e il dominio degli oggetti.

Ernest Jones, in uno scritto intitolato “Tratti del carattere erotico-anale”, traccia le linee dell’educazione del bambino alla pulizia nella fase anale:

  • disabituarlo dallo sporcare con gli escrementi il proprio corpo e ciò che lo circonda;
  • abituarlo a una regolarità temporale delle sue funzioni intestinali;
  • limitare il piacere che prova verso i suoi stessi processi escretori;
  • disconfermarlo quando prova piacere nel portare le sue mani a contatto con le feci.

Questi processi di limitazione delle pulsioni anali infantili sono fondamentali per la sua crescita.

Ferenczi aggiunge che nello stadio anale emerge nel bambino il piacere di guardare e odorare le feci e per questo l’educazione fatta al bambino deve esigere oltre alla pulizia una precisa regolarità nelle escrezioni. Il bambino deve riuscire ad identificarsi con la richiesta degli educatori e sentirsi orgoglioso di fare la cacca nel vasino, di “essere stato bravo” e di ricevere la lode dei genitori.

Se in questa fase predomina poca cura sfinteriale e poca capacità da parte del genitore di essere incisivo su alcuni comportamenti del bambino, gli influssi anali si potranno avere in età adulta sotto forma di veri e propri tratti del carattere anale, che per S. Freud sono:

  • amore dell’ordine che spesso degenera in pedanteria;
  • una parsimonia che si muta facilmente in avarizia;
  • una equiparazione inconscia di feci e danaro, o altre cose preziose;
  • una ostinazione che trascende in violenta caparbietà.

S. Freud, inoltre, sottolinea che individui con tratti anali mostrano un accentuato piacere primario per l’evacuazione intestinale e per i suoi prodotti.

Isidor Sadger aggiunge che le persone con pronunciato carattere anale presentano alcune caratteristiche molto simili:

  • sono convinte che potrebbero fare tutto meglio di chiunque altro;
  • hanno una grande costanza che spesso si trova associata alla tendenza a rimandare tutto sino all’ultimo istante;
  • un particolare impulso alla pulizia.

Ma quali sono i fattori che possono portare un bambino o un adolescente a fissazione anale, o ad un carattere adulto con tratti anali? Diremo che sono quelli che più si ritrovano nel nostro tipo di società:

  • una madre frettolosa che educa con aggressività il figlio/a all’espletamento dei suoi bisogni;
  • genitori che costringono prima del tempo il bambino ad una abitudine sfinteriale per la quale manca ancora la preparazione psichica: consideriamo l’esigenza dei genitori di mandare i figli all’asilo già senza pannolini;
  • genitori che svalutano l’immaginario del proprio bambino che agli escrementi e alle sue prestazioni escretorie dà potenza narcisistica, onnipotenza dei propri pensieri e dei propri desideri;
  • genitori assenti che non condividono quell’orgoglio del bambino per l’evacuazione e quel primitivo senso di potenza;
  • donne o madri che redigono un programma minuzioso tipo: alzarsi, mettersi sul vasino, lavarsi le mani, etc…;
  • tipo di madre che spesso sottolinea al bambino: “A che punto sei? Ore 9.15!”;
  • madri o genitori che non sopportano vedere i loro figli sporcarsi;
  • madri che hanno dispensato i loro figli dalla prestazione della defecazione, somministrando loro clisteri o purganti in larga misura.

La costellazione dei tratti infantili anali o sadico-anali è, in base ad una visione psicoanalitica, visibile nell’infanzia e nell’adolescenza nei suoi elementi:

  • pulsioni distruttive indirizzate all’oggetto: l’adolescente che aggredisce i propri compagni di classe;
  • pulsioni distruttive indirizzate all’Io: il bambino o il ragazzo che somatizza i suoi stati interiori;
  • fantasie inconsce “catastrofiche”: il ragazzo capace di pensare al suicidio perché non ha svolto i compiti;
  • bambini irritati con continua voglia di giocattoli;
  • avidità vissuta come desiderio di possedere tutte le cose buone di cui, bambini o ragazzi, hanno bisogno;
  • scontentezza e sofferenza per tutto quello che il ragazzo crede di non possedere;
  • occhi penetranti che sembrano registrare incessantemente paragoni;
  • pensare solo a ciò che si possiede;
  • invidiare l’altro sesso;
  • essere fortemente gelosi del fratellino o sorellina appena nati.

Come si cura il bambino o l’adolescente con visibili tratti sadico-anali, per non determinare in lui un carattere adulto anale?

I genitori devono saper “dire di no” al proprio figlio. Per bloccare iniziative inaccettabili o fastidiose o porre termine ad una situazione sgradevole molto spesso è sufficiente dire di no e mantenere tale atteggiamento costante nel tempo. Il problema è però che vi sono molti modi per “dire di no”, ciascuno con implicazioni diverse.

Per esempio il “no” empatico trae spunto da uno dei principi che sottosta al messaggio assertivo: l’empatia. È il modo sicuramente meno aggressivo per porre termine a richieste o provocazioni dei figli poco gradite dai genitori.

Nel “no” ragionato il genitore non accetta il comportamento del proprio figlio e ne indica in modo chiaro le ragioni. Il messaggio è onesto, anche se manca del segmento empatico.

Sono da evitare il “no” manipolativo e seduttivo, in cui il genitore nega ma contemporaneamente lascia trapelare un sentimento esattamente opposto, e il “no” secco e inappellabile, in cui il “no” del genitore non è seguito da spiegazioni di alcun tipo, e tanto meno da messaggi di natura empatica.

Fin qui le linee di una strategia operativa di base che i genitori devono conoscere e seguire, a cui se ne possono aggiungere altre la cui conoscenza è indispensabile per evitare che il proprio figlio da adulto abbia un carattere anale. I tratti adulti anali? Ecco le tendenze più comuni:

  • rubricare e registrare, fare prospetti in tabelle e statistiche nelle forme più svariate;
  • vera ostinazione verso ogni richiesta o preghiera: di contro in altre situazioni, donazione spontanea senza il minimo calcolo;
  • dividere il cibo in porzioni;
  • pagare, anche i conti più piccoli, con assegni o con la propria carta, non utilizzando in nessun caso banconote o monete in circolazione, ma “producendo per ogni caso il proprio denaro”;
  • accumulare in soffitta oggetti rotti di ogni tipo, eliminare poi, tutto ad un tratto, il ciarpame riposto: in queste persone prevale il piacere di ritenere il contenuto intestinale;
  • accumulare carte, lettere, notizie di giornali;
  • comprare vestiti ma non li indossarli, e provare gioia (o indifferenza) a vederli appesi nell’armadio e/o a non usarli;
  • dilapidare denaro, come tratto tipicamente femminile;
  • vivere il piacere di elaborare un progetto, ma perdere il piacere della sua attuazione;
  • tenere ordinata la propria scrivania, i libri in vista sullo scaffale sistemati con grande cura e regolarità, ma molta carta nei cestini, molto disordine nei cassetti, bagni non puliti: questo disordine rappresenta un “intestino pieno di feci”, che i soggetti non sono educati ad “evacuare”;
  • agire nelle piccole e grandi cose in maniera trasgressiva, contraria alle abitudini: atteggiamento tipico dei cosiddetti soggetti “originali”, la cui natura è in realtà oltremodo anale.

Bastano a convincervi che educare il bambino nella fase sadico-anale significa abituarlo a canalizzare, una volta adulto, gli affetti e i pensieri nel principio di realtà?

Buon compleanno, Freud!

di Nunzia Tarantini | in Blog

Logo dell'anno commemorativo della Sigmund Freud Foundation.

 

Illustre Professore,
[…] E quanto all’uomo, Lei non potrà liberarsi di me, se non altro perché sarò io a non mollarla; io me ne sto aggrappato ben forte, e così ci rimetterei un pezzo di pelle se mi scrollasse via.
Spero che le mie dichiarazioni d’amore non suonino troppo monotone. In fondo, però, sono tranquillo a questo riguardo, da quando ho visto il Suo sorriso comprensivo che personifica così bene il “Non giudicate”.
Con molti cordiali saluti ed auguri sono
il Suo devoto Groddeck.

Caro professore,
[…] L’annuncio che Lei si sta occupando della tecnica mi ha sorpreso molto piacevolemente. Ne abbiamo bisogno; ci risparmierà fatiche e delusioni. Deve essere piuttosto penoso trasmettere in modo accessibile a noi discepoli conoscenze conquistate a prezzo di tanti sacrifici. Chiunque abbia finora portato avanti faticosamente il proprio lavoro senza questo supporto, apprezzerà la grandezza del dono che Lei ci fa. […]
Suo devoto
dott. Ferenczi.

Stimatissimo professore,
[…] Con il Suo aiuto ho già ficcato lo sguardo abbastanza a fondo, è vero, ma sono ancora ben lontano dal veder chiaro. Comunque ho la sensazione di aver compiuto interiormente un passo avanti quanto mai sostanziale dal momento in cui L’ho conosciuta personalmente, perché ho l’impressione che sia assolutamente impossibile capire a fondo la Sua scienza se non si conosce la Sua persona. […]
dal Suo devoto e riconoscente
Jung.

Caro professor Freud,
Innanzitutto mi consenta di ringraziarLa per il Suo interessantissimo estratto. Era, come tutti i Suoi scritti, troppo breve, perché noi aneliamo, come Oliver Twist, ad avere di più. […]
Suo sempre cordialmente
Ernest Jones.

L’effetto curativo e liberatorio del metodo psicoanalitico mi riempie di gratitudine e alimenta in me una fiducia che dura da tutta la vita nel metodo psicoanalitico e nella sua efficacia. È per questo che intendo ringraziare il creatore della psicoanalisi per la sua chiarezza, trasparenza e scientificità. Con Freud il caso clinico diventa storia di vita, il paziente un essere umano che cerca soluzione e vie di uscita dai suoi conflitti. Il divano svela i segreti del cuore umano, gli abissi e gli orrori dell’esistenza umana.

Ciò si è potuto realizzare grazie alla sua impresa, a cui si deve attribuire una importanza epocale: l’eliminazione della differenza tra normale e malato.

Alcuni hanno uno scetticismo verso l’opera di Freud, perché da essa emerge l’idea di un uomo autonomo e senza timori, che può “dominare il mondo esterno delle apparenze attraverso il mondo interno del desiderio”, come scriveva lo stesso Freud nel 1932 ad Arnold Zweig.

Ancora Freud nel 1924 esprime l’aspettativa “che la psicoanalisi penetri come fermento significativo nello sviluppo civile dei prossimi decenni e ci aiuti ad approfondire la nostra comprensione del mondo”. La psicoanalisi ha compiuto cento anni, Freud ha compiuto centocinquant’anni e guardando bene all’indietro si nota che se la sua aspettativa si è realizzata in senso puramente scientifico spesso si vive un rigetto della psicoanalisi da parte del resto del mondo, e nello specifico delle istituzioni: probabilmente perché si sottrae per sua natura alle pressanti logiche di mercificazione, già preesistenti alla discutibile frenesia globalizzatrice. Brutalmente: non vende nulla, non piazza prodotti, semplicemente cura.

La psicoanalisi deve appartenere a tutti gli uomini, non in ossequio ad una propaganda di tipo missionario o apostolico, ma semplicemente come modo efficace per comprendere l’aggressività irrazionale e le tendenze distruttive delle società, così come le relazioni dei popoli tra loro.

Finché la psicoanalisi si richiamerà allo studioso Freud essa continuerà ad esistere, ad influire sul pensiero dell’uomo e sulle idee riguardo alla sua essenza.

Buon compleanno quindi, professor Freud!

Scopriamo il piccolo delinquente

di Nunzia Tarantini | in Adolescenza, Blog, Infanzia, Scuola e istruzione

Nel sistema scolastico predomina uno stato di incoscienza spesso allarmante per la mancanza di una preoccupazione educativa e di una prassi preventiva verso il piccolo delinquente. Parimenti nell’istituzione familiare esiste uno stato di incoscienza quasi paradossale: gli stessi genitori non sanno di essere essi stessi i precursori di una futura delinquenza del figlio. La carenza dell’autorità genitoriale, soprattutto paterna, e l’assenza fisica della madre o del padre portano inevitabilmente a fenomeni di piccola delinquenza.

Ma perché l’istituzione scolastica e quella familiare non sentono la necessità di utilizzare l’aiuto di operatori, che svolgendo una buona prassi psicoterapeutica, in cui si analizza il singolo caso clinico, siano in grado di individuare i meccanismi psicologici del piccolo delinquente, i meccanismi patologici del contesto gruppale in cui è inserito, e decidere la migliore strategia terapeutica?

Con molta umiltà, in qualità di insegnanti o genitori, dobbiamo chiederci se siamo in grado di riconoscere i meccanismi psicologici più usati dal piccolo delinquente per commettere un atto antisociale o se è il caso di rivolgerci ad un esperto.

Anche noi psicoterapeuti rimaniamo spesso sbalorditi dall’abilità con cui i ragazzi mettono in moto un comportamento delinquenziale, usando meccanismi psicologici di difficile comprensione. Si pensi per esempio a quel ragazzo con un certo tipo di disturbo che riesce abilmente a “scovare” coetanei affetti da una patologia analoga o complementare: per esempio un ragazzo con forti tendenze sadiche individuerà in un battibaleno, in mezzo a tutti gli altri, il compagno potenzialmente disposto al masochismo. I due ragazzi, complementari nelle loro patologie, tenderanno ad essere un unico corpo ed uno sarà funzionale all’altro per una crescita deformata: il primo potrà esperire la sua aggressività sull’altro per sentirsi adulto e il secondo avrà bisogno di punizioni, pur di ricevere un po’ di attenzione.

In altri casi si osserva un Io con forti impulsi delinquenziali infantili sentirsi “a disagio” o essere “allergico” a ragazzi che non mostrano nessun tipo di delinquenza, mentre legare subito e spontaneamente con ragazzi che presumibilmente sono disposti ad appoggiare, integrare o contribuire alla sua costante ricerca di gratificazioni delinquenziali.

Molti criteri diagnostici evidenziano che molto spesso il delinquente infantile si inserirà istintivamente nell’atmosfera di gruppo tipica della banda. Il fenomeno delinquenziale si manifesta con maggiore violenza quando si ha un certo numero di ragazzi con un Io delinquente che tutti insieme vivono un gruppo, perché allora essi hanno modo di dare sostanza alle loro individuali difese delinquenziali, inserendole in una sorta di “codice di gruppo” ufficialmente riconosciuto. È come se essi sapessero che l’annullarsi in un codice delinquenziale di gruppo costituisce il migliore antidoto contro i residui della loro coscienza morale individuale.

Casi clinici sottolineano come alcuni ragazzi non cessano di fare ricorso ad un utile meccanismo: spingere qualcun altro a compiere l’azione che darà il via all’atto delinquenziale. La procedura è la seguente: con le loro provocazioni spingono qualcun altro a compiere un atto di aggressività, di ribellione o di delinquenza. Non appena questi dà il via, essi si sentono liberi di raccogliere l’iniziativa e di godersi la sequenza di atti antisociali come se non avessero alcuna responsabilità, perché semplicemente estranei al mettere in moto l’azione delinquenziale.

Altri casi mostrano una smania da parte dell’adolescente delinquente di cacciarsi in situazioni deliquenziali di cui con eccezionale preveggenza fiuta le “potenziali tentazioni” e se ne lascia coinvolgere. Si direbbe che per il suo Io è una “tentazione così forte da non potervi resistere” e ciò costituisce una valida giustificazione contro il senso di colpa. Tutto quello che occorre, dunque, è cercare situazioni idonee allo scopo.

In casi di più complessa patologia rientrano quei ragazzi che sfruttano i propri stati d’animo o la patologia da cui sono affetti, per giustificare atti di delinquenza. È sorprendente vedere come il loro Io delinquente riesca a sfruttare questa ghiotta “opportunità interiore”. Per esempio un ragazzo con un forte bisogno di manifestare il proprio sadismo, che però si sentirebbe in colpa se lo facesse a sangue freddo, sceglierà molto abilmente il momento della gratificazione dei propri desideri sadici in modo da farlo coincidere con una delle sue crisi patologiche: l’eccesso di rabbia che davvero il ragazzo non può controllare viene sfruttato per giustificare un gesto di crudeltà nei confronti di un rivale odiato o un atto di ostilità verso un adulto, che non si sarebbe potuto altrimenti permettere senza sentirsi in colpa. Farlo coincidere esattamente con l’inizio di una crisi gli offre la possibilità di “farla franca” con sé stesso, mediante la giustificazione: “Beh, non posso farci nulla quando mi trovo in quello stato.”

Infine conosciamo tutti le curiose distorsioni a cui può andare soggetta l’idea corrente di moralità quando una azione viene compiuta al servizio di una “causa”. Molti eroi dei “movimenti clandestini di resistenza” si sentirebbero piuttosto colpevoli se commettessero le stesse azioni nel corso della loro vita “borghese”. Non si sa come molti ragazzi abbiano intuito questo meccanismo: solo che, naturalmente, le “cause” che scelgono per le loro acrobazie giustificatorie non sono vere secondo l’accezione comune del termine, se non in una piccola parte che si presta ad essere sfruttata nel loro senso. Può accadere, per esempio, che a un ragazzo venga fatto un torto dall’insegnante: cinque altri ragazzi, a cui di solito non importa molto di quel compagno, coglieranno immediatamente l’occasione per “fargliela vedere a quell’insegnante”, o faranno a pezzi le attrezzature o le finestre della scuola, considerando in se stessi tutto questo soltanto come il sottoprodotto marginale di una rappresaglia pienamente giustificata. Il meccanismo messo in atto è chiaro: la buona causa di qualcun altro diventa l’occasione per dar luogo, senza sentirsi in colpa, a manifestazioni comportamentali che la coscienza morale individuale di ciascuno difficilmente avrebbe altrimenti tollerato.

Erano solo pochi esempi per mostrare quanto sia difficile capire e svelare i mille meccanismi dell’animo infantile delinquenziale. Più dialogo e più scambio di informazioni fra i vari attori dell’educazione del ragazzo delinquente sono senza dubbio un buon inizio per future carceri meno affollate e migliori padri di famiglia.

L’Io infantile delinquente e i suoi alibi

di Nunzia Tarantini | in Adolescenza, Blog, Infanzia

Come si comporta un ragazzo quando è violento, aggressivo, quando ruba o distrugge un oggetto ad un altro? Quali sono le tecniche che usa per giustificare il suo atto?

Sono tante le difese che il ragazzo può utilizzare per nascondere agli altri i suoi impulsi aggressivi, soprattutto quando questi si trasformano in vere e proprie azioni antisociali, e spesso somigliano molto agli alibi con cui i delinquenti cercano di dimostrare la propria estraneità a un fatto quando vengono sottoposti ad un interrogatorio stringente: si tratta di “deliri sistematici” inventati dai ragazzi per tener testa, per così dire, alle domande della loro stessa coscienza morale, ove questa sia ancora integra.

Esattamente come le difese contro l’angoscia messe in atto da un individuo non fanno altro che dimostrare l’esistenza di qualcosa da cui occorre difendersi, gli alibi-scuse-pretesti di cui i nostri ragazzi, spesso bambini, hanno bisogno per evitare di “star male per quello che hanno fatto” sono la prova al tempo stesso dell’abilità del loro Io nel tenere lontani i sensi di colpa: a volte il ricorso a simili espedienti di evasione costituisce l’unica prova tangibile dell’esistenza di qualche valore sano, in quanto proprio per metterli a tacere si è dovuto inventare tutto quel complesso ingranaggio.

Le tecniche più usate dai ragazzi sono quelle di “evasione dai sensi di colpa“.

Alcuni posseggono l’invidiabile capacità di rimuovere, o di vivere un improvviso “blocco” quando sono “sottoposti a un interrogatorio stringente” (rimozione della propria intenzione).

Altri cercano di discolparsi scaricando la colpa su qualcun altro, soprattutto perché è stato questo qualcun altro a cominciare per primo e ciò costituisce la condizione per non doversi sentire in colpa per qualcosa che si è fatto: “È stato lui a cominciare!”. A volte la voce della coscienza può essere messa a tacere dal pensiero che l’atto che provoca il senso di colpa – inizialmente soltanto una debole intenzione – è stato compiuto soltanto dopo che qualcun altro lo aveva a sua volta compiuto apertamente. Sembra assodato che, almeno “ad uso interno”, la priorità della colpa di qualcun altro serve benissimo ad esonerare dal sentirsi in colpa.

Alcuni giustificano l’atto violento dicendo: “Fanno tutti così!”. Spesso sono ragazzi che rispondono con calore: “Non c’è un solo ragazzo nel mio quartiere che non rubi: tutti rubano prima o poi, anche lei. Ci scommetto! Anche i preti rubano.” È un meccanismo estramamente diffuso tra “peccatori adulti”, una scusa che si sente spesso portare a propria difesa anche da persone per altri versi onestissime: ad esempio persone che non si sognerebbero di rubare un centesimo ad un loro simile scoprono che il loro senso morale vacilla all’idea che una certa cosa è abituale nel mondo degli affari, oppure – senza spingersi fino al furto – comportamenti, peraltro molto “italiani”, come insozzare aree e beni pubblici o parcheggiare in doppia fila, diventano tacita regola al verificarsi di un precedente minimo. Questo tipo di logica sintomatica è molto diffusa perché in essa avviene quella che M. Klein definisce identificazione adesiva, il cui effetto visibile è una imitazione automatica.

Altri ragazzi giustificano l’atto aggressivo dicendo: “C’eravamo di mezzo tutti quanti!”. E in una logica gruppale è facile sentire frasi evasive del tipo: “Ecco, c’eravamo tutti, e lei viene a dirlo a me! Perché deve dare la colpa a me?”. Certe azioni, che un ragazzo non potrebbe mai permettersi di compiere senza provare in seguito un forte senso di colpa, se invece fanno parte di una impresa collettiva egli può compierle a cuor leggero senza provare il minimo fastidio. È come se l’Io del ragazzo usasse il fatto stesso che tante persone vi erano implicate come fattore per alleviare il proprio senso di colpa. Questa straordinaria medicina fuori posto che è lo spirito del gruppo, il senso del noi, in questo caso mostra gravi controindicazioni, essendo in realtà proprio l’antitesi dello spirito di gruppo, che W. R. Bion rappresenta con l’espressione tipica di un gruppo smembrato: “Siamo tutti sulla stessa barca”. In questo caso il gruppo è abilmente utilizzato per tacitare le esigenze del Super-Io individuale.

Altri ancora giustificano l’atto aggressivo dicendo: “Ma hanno fatto la stessa cosa a me!”. Essi cercano per esempio di dimostrare che il loro furto era giustificato, perché “anche a loro avevano rubato dei soldi tempo fa”. Non occorre aggiungere che solo un Io molto primitivo può riuscire a farla franca con un trucco del genere.

Alcuni si difendono da un atto violento dicendo: “Se lo meritava!”. Quando usano questa argomentazione i ragazzi intendono dire di solito che il loro comportamento, per il lato delinquenziale del quale potrebbero essere costretti a sentirsi in colpa, è stato motivato in primo luogo dalla vendetta, che, sacrosanta, dovrebbe giustificare tutto.

Altri usano giustificare l’atto aggressivo dicendo: “Se non l’avessi fatto avrei perso la faccia!”. Questo avviene soprattutto nella preadolescenza e nella prima adolescenza, periodi in cui lo status all’interno del proprio gruppo assume una tale importanza da giustificare pretesti del genere.

Per certi ragazzi il senso di colpa sembra dover dipendere dal fatto che il ricavato delle loro azioni venga effettivamente consumato e goduto. Essi dicono: “Ma io non ho tenuto il ricavato!”. Questa è una grande astuzia, perché offre all’Io delinquente un’ottima via d’uscita: basta evitare di usare o di godere il risultato della cattiva azione e la coscienza non potrà avere più nulla da ridire. Molti ragazzi sostengono in tutta convinzione che il loro comportamento è ineccepibile perché avevano regalato, rotto, nascosto, perduto o gettato via il bottino.

Un trucco, analogo al precedente, usato dall’Io del ragazzo violento è quello di dire: “Ma dopo ho fatto pace!”. Molti ragazzi fanno ricorso a questo espediente ancora una volta perché così si sentono liberi da ogni colpa.

Anche la possibilità di disprezzare la vittima diminuisce il senso di colpa. Per esempio alcuni ragazzi ladruncoli tendono a considerare un’ottima scusante per il loro gesto, il fatto che il derubato sia egli stesso “nient’altro che uno sporco ladro” e cioè un tipo spregevole.

In altri casi i ragazzi agiscono in base al seguente assunto: se solo riusciamo a dimostrare che il mondo è contro di noi, allora anche i sensi di colpa sono ignorati. L’espressione di tutto ciò non può che essere: “L’ho fatto perché ce l’hanno tutti con me, nessuno mi vuole bene, mi fanno continuamente dei dispetti!”.

Non di rado il clinico rimane sbalordito dalle abilità sopradescritte e da tante altre forme che i ragazzi scovano per giustificare le loro azioni delinquenziali. Si può comunque dire che essi sono affetti da una patologia e la cura delle forti tendenze sadiche sarà il primo presupposto indispensabile per ridurre gli impulsi delinquenziali. In ogni caso non si può prescindere dalle forme disponibili di sostegno psicologico alla delinquenza infantile se l’obiettivo dell’integrazione nell’ambito della società è riconosciuto di primaria importanza. Di questo parleremo nel prossimo post.

L’Io infantile delinquente

di Nunzia Tarantini | in Adolescenza, Blog, Infanzia

Quando si parla di Io infantile delinquente si fa riferimento a ragazzi con una forte impulsività per quel che riguarda l’odio e la distruttività, o a ragazzi con un autocontrollo del tutto inadeguato: il loro Io risulta scarsamente sviluppato, imperfetto nel suo funzionamento fino al punto di essere incapace di svolgere la propria funzione.

Non è sempre così. In alcune situazioni ci troviamo di fronte, inaspettatamente, a funzioni dell’Io che sembrano addirittura sovrasviluppate: in questo caso il problema sta nel fatto che esso funziona al servizio del padrone sbagliato.

Si parla di “Io infantile delinquente” nella situazione in cui un ragazzo è impegnato a difendere a tutti i costi la gratificazione degli impulsi invece di svolgere una sintesi tra i desideri, le esigenze di realtà e la forza dei valori sociali: l’Io sta tutto dalla parte dell’impulsività, si butta con tutto il suo peso a rendere possibile la gratificazione dell’impulso, contro il mondo esterno come pure contro ciò che può essere rimasto della voce della coscienza. Si deve essere consapevoli che il termine “delinquente”, se pure è lecito usarlo, andrebbe più propriamente riferito al Super-Io dell’adolescente che non al suo Io.

Il concetto clinico di delinquenza opera una netta differenziazione tra la valutazione del comportamento delinquenziale rilevato in un determinato caso e il problema della base su cui esso ha avuto luogo, ossia il suo sfondo.

Supponiamo che un ragazzo di dodici anni abbia commesso un furto: dal punto di vista giuridico questo comportamento rientra indubbiamente nella categoria dei comportamenti delinquenziali, e così pure dal punto di vista culturale. A questo punto, è però possibile che il clinico scopra che in quel caso l’atto del rubare era semplicemente parte di una nevrosi di gelosia: dal punto di vista clinico saremmo portati a considerare il suo gesto un “furto a sfondo nevrotico“.

A confronto con questo ragazzo, l’adolescente che ha rubato semplicemente perché ha visto qualcosa che gli piaceva e non si è minimamente preoccupato che appartenesse a qualcun altro ha compiuto un atto che non solo può essere classificato delinquenziale ma che anzi si può dire essersi verificato su uno “sfondo delinquenziale“.

Tale distinzione, mentre non avrebbe molta importanza nel determinare il valore giuridico o culturale del comportamento in questione, ne ha invece moltissima per determinare il tipo di disturbo da cui il ragazzo è affetto e le misure da adottare per curarlo e impedirgli al tempo stesso di compiere azioni analoghe.

Il tipo specifico di disturbo della personalità a cui si fa riferimento quando si afferma che il furto di un ragazzo è a sfondo delinquenziale può variare a seconda dei casi. Si potrebbe pensare a un “disturbo del carattere”, oppure contemplare la possibilità che un determinato bambino rubi “a causa della sua completa identificazione con il codice delinquenziale del suo quartiere”. Si potrebbe addirittura scoprire che il ragazzo che cresce in certe condizioni tenderà con ogni probabilità a sviluppare un “Super-Io delinquente” per “l’identificazione con” gli adulti con i quali è vissuto.

Comunque in entrambi i casi ci troviamo di fronte a ragazzi che odiano. Ben lungi dall’essere impotente l’Io di questi ragazzi dimostra inaspettatamente di essere un giudice piuttosto acuto di quella realtà che può essere d’impedimento all’esplicarsi della loro impulsività e diviene un efficiente manipolatore del mondo che li circonda, nonché un energico difensore, contro la voce della loro stessa coscienza morale, dei piaceri dell’atto delinquenziale. Il tentativo dell’Io è dunque di assicurare il godimento, libero dall’angoscia, dal senso di colpa e da tutti i limiti morali.

Esistono comunque livelli diversificati di patologia delinquenziale:

  • alcuni ragazzi, il cui Io si è già identificato completamente con un codice di comportamento e con valori delinquenziali, non proveranno neppure il fastidio del senso di colpa: il compito dell’Io sarà dunque quello di “farla franca” e di difendere la loro natura delinquenziale dalla minaccia del mondo che li circonda;
  • altri invece non sono ancora arrivati a questo punto: qua e la scatta l’identificazione del loro Io nei valori delinquenziali, ma la voce della loro coscienza morale riesce ancora a farsi sentire;
  • in altri casi ancora, né l’identificazione con i valori né l’Io delinquente sono molto sviluppati: si tratta di ragazzi il cui Io sembra avere principalmente una funzione di “manipolazione della realtà”.

Nel prossimo post approfondiremo la relazione di questi ragazzi con i propri impulsi aggressivi.

Latte, latte delle mie brame…

di Nunzia Tarantini | in Blog, Prima infanzia

Spesso è difficile comprendere che in un bambino la fase orale (0-1 anno), ossia la fase dell’allattamento, rappresenta il primo e forse il più importante presupposto di un comportamento futuro normale, dal punto di vista sia sociale che sessuale. Il piacere orale del neonato significa – e significherà anche in età adulta – piacere di prendere, di ricevere. Le deviazioni quantitative dal processo usuale di conquista del piacere tramite il succhiare il seno e il mordere gli oggetti possono dar luogo a disturbi, legati ad alcuni fattori.

Come si allatta e si alleva:

  • il primissimo desiderio di piacere viene soddisfatto in modo manchevole;
  • la beatitudine dell’età neonatale non è goduta a sufficienza;
  • la stessa epoca è straordinariamente ricca di piacere;
  • il bambino, nella sua richiesta di piacere, è viziato dalla madre, che acconsente ad ogni suo desiderio;
  • svezzamento difficoltoso, che non di rado riesce soltanto dopo anni;
  • eccessiva riduzione del contatto fisico, soprattutto con riguardo al tenere in braccio il bambino troppo poco;
  • cambiamenti eccessivi di baby-sitter;
  • mutamenti improvvisi nella routine;
  • brusca separazione dalla madre;
  • trascuratezza concreta (per esempio, dimenticare di allattarlo);
  • assenza d’amore.

Chi allatta e alleva, ossia il tipo di madre, il cui comportamento nevrotico determina una atmosfera sfavorevole per il piccolo:

  • madri assenti con psiche frigida, il cui seno diventa “congelato” per il bambino;
  • madri martiri che ricordano di continuo al proprio figlio tutto ciò che hanno fatto per lui e quello che hanno dovuto sacrificare: tale impulso è così intenso e irrefrenabile che viene trasmesso fin dai primi giorni al proprio figlio tramite un “seno-dolore“;
  • madri da “mammismo”, la cui aggressiva presenza si traduce in un ostinato seno in bocca al bambino, pensabile più come “seno-tappo“.

La costellazione dei tratti orali che può emergere in età adulta comprende le più svariate manifestazioni di ambivalenza (copresenza di espressioni positive e negative di desideri pulsionali) e/o di tendenze ostili e mordaci:

  • manifestazioni amplificate di desiderio e forti aspirazioni, presenza di impulsi avidi, forte generosità, tendenza a succhiare cibi dolci, desiderio intenso, pulsionale di cibi dolci (specie se si tratta di uomini!), anormali sintomi di fame cosiddetta nevrotica (specie se si tratta di donne!), presenza di “attacchi di fame da lupo” (specie di notte!);
  • rifiuto di nutrirsi, per esempio inappetenza, disgusto per il cibo, nausea e vomito con connotazioni isteriche, rifiuto del cibo associato alla paura di morire di fame.

Se nella prima infanzia la beatitudine dell’età neonatale non è goduta a sufficienza (latte negato, amore negato), in età adulta l’individuo potrà evidenziare una inibizione del desiderio degli oggetti, con forte angoscia di poter perdere anche soltanto una minima parte di quel che possiede.

Se nella prima infanzia l’epoca orale è stata deludente (madre assente, carezze carenti), in età adulta l’atteggiamento sarà quasi sempre apprensivo verso la vita, con l’inclinazione “a darsi pena” per qualunque cosa e a rendere più difficili del necessario anche gli eventi più semplici dell’esistenza.

Se nella prima infanzia l’epoca orale è straordinariamente ricca di piacere (bambini viziati nel periodo dell’allattamento: troppo latte e troppi oggetti) in età adulta prevarrà la convinzione profondamente radicata che le cose debbano andare sempre bene, sospinta da un ottimismo imperturbabile e fatalistico (ottimismo nevrotico), che se spesso aiuta tali soggetti nell’effettiva realizzazione di scopi pratici, potrebbe però anche condannarli all’inattività. Bambini viziati durante l’allattamento saranno individui adulti la cui libido pretende incessantemente il soddisfacimento abituale e non tollera la minima frustrazione.

Se nella prima infanzia i bambini sono stati grandi “ciucciatori del pollice” (il pollice rappresenta il capezzolo materno da cui il bambino non vuole prendere le distanze perché gli fornisce “latte continuo”), in età adulta possono non mostrare alcuna particolare colorazione libidica dell’assunzione di cibo, che può spingersi al disgusto per il cibo, con frequenti nausee e tendenza a vomitare.

Inoltre una fase orale disturbata può determinare in fase adulta un comportamento sociale dell’individuo molto limitato, una scelta limitata della professione, delle simpatie e dei passatempi. In questo caso si avrà il dipendente nevrotico passivamente legato a mezzi di sussistenza che gli devono essere assicurati permanentemente, fino alla morte. Egli rinuncia ad ogni possibilità di affermazione personale in favore di una fonte di reddito sicura e regolare.

Altre conseguenze della fase orale disturbata si possono rilevare in individui che nel loro comportamento sociale sembrano pretendere sempre qualche cosa, ora più nella forma del chiedere, ora più nella forma dell’esigere. Il modo in cui manifestano i loro desideri ha in sé qualcosa del succhiare insistente: non si lasciano distogliere né dalla realtà dei fatti, né da obiezioni razionali, ma continuano a incalzare e insistere. Essi sono particolarmente sensibili allo stare soli, anche per poco tempo.

Se la fase sadico-orale, ossia quella del mordere, in cui il bambino porta gli oggetti alla bocca e li morde, è disturbata da una madre ansiosa che toglie ogni tipo di oggetto dalla bocca del bambino, o al contrario lo lascia con lo stesso oggetto per ore senza limitarlo, in fase adulta essa può evolversi nel bisogno di dare attraverso la bocca. Troveremo perciò accanto al desiderio continuo di ricevere tutto, un impulso continuo a comunicare con gli altri per via orale: da ciò deriva un impulso ostinato a parlare. Ad esso si collega il senso di “straripamento” e/o “strascicamento” e le persone di questo tipo hanno l’impressione di essere inesauribili nel produrre pensieri, attribuendo alle loro espressioni linguistiche un particolare influsso o tono, o un qualche valore straordinario.

Conseguenze più gravi della fase orale mal riuscita si hanno nei nevrotici depressi, che ricevono spesso un influsso benefico dal semplice ingerimento di un farmaco il cui effetto suggestivo della “boccetta” non dipende soltanto dal medico curante, ma dalla proprietà di offrire alla bocca del malato qualcosa che suscita in lui echi dei più antichi ricordi piacevoli. E pensare che lo chiamano “placebo”!

Homo criminalis

di Nunzia Tarantini | in Adolescenza, Blog, Infanzia, Prima infanzia, Scuola e istruzione

Ma perché non analizzare le reazioni impulsive originarie e asociali del bambino all’autorità, invece che vedere – nella più completa rimozione del genitore, della famiglia, della scuola e dell’istituzione – lo sviluppo del delinquente già all’opera?

Ma quanti sensi di colpa ha questa società e i suoi notabili per non capire che non si può fare solo una prevenzione medica e tracciare le linee guida per aiutare il cittadino a non ammalarsi, non si può fare solo una prevenzione psichiatrica per ripetere che l’atto criminoso è spesso “giustificato” con forme gravi di disturbi della personalità, ma si deve fare soprattutto prevenzione psicologica, comprendere la necessità di una diagnosi psicologica, di una criminologia psicoanalitica che analizzi e rintracci i primi segni nel bambino e nell’adolescente di fissazione patologica che, se non curati, inevitabilmente porteranno al futuro delinquente.

I segni, gli indizi, i precursori di un futuro comportamento delinquenziale sono ben noti ad una disciplina psicologica e psicoanalitica, ma non sembrano interessare a nessuno: non se ne parla, non si forma a coglierli né il genitore, né l’educatore, né l’intera comunità. Un approccio psicoanalitico al problema della delinquenza permette di mettere a fuoco le componenti distruttive, gli impulsi bassi che già operano nel bambino nei confronti del genitore, i conflitti inconsci non risolti: il delitto in età adulta si presenta pertanto come una nevrosi abortita – espressione di F. Alexander – per l’incapacità dei soggetti di sopportare le enormi tensioni psichiche che il tentativo di soluzione in forma intrapsichica esigerebbe.

La psicoanalisi offre alla società un mezzo diagnostico differenziale della delinquenza, uno strumento terapeutico tramite il quale negli impulsi aggressivi e libidici del bambino, soprattutto egoista, geloso, aggressivo, indifferente agli altrui bisogni e spontaneamente impenetrabile ai principi morali dell’adulto, vede tendenzialmente un criminale in miniatura. F. Alexander e H. Staub: “il criminale trasforma i propri naturali impulsi asociali in azioni, come lo farebbe il bambino solo che lo potesse“! Ma vi è di più. La psicoanalisi, chiarendo l’automatismo dei conflitti inconsci non risolti, conferma la teoria del determinismo psichico ed interpreta l’azione criminosa come prodotto di una serie di cause determinate di cui – è il caso di ripeterlo – non si vuole né prendere coscienza, né coltivare una coscienza popolare che possa giovare, persino in Italia, ad una migliore intelligenza del delinquente e del delitto.

Gli stati affettivi patologici, le tendenze asociali, le condotte impulsive e di dipendenza che agiscono nell’infanzia devono essere seguite e curate molto tempestivamente nel bambino, nell’adolescente e nel giovane, tramite strutture psicosanitarie che possano proporre e organizzare sistemi di diagnosi prescrittive e preventive da condividere con le altre professionalità ed istituzioni, così da realizzare una vera e propria gestione psicosanitaria “al nanosecondo”, che dia il necessario vantaggio agli operatori per prendere l’iniziativa verso il bambino problematico, prima che sia lui ad agire in qualità di delinquente.

È necessario correre contro il tempo di crescita dei bambini con patologie, perché crescere significa amplificare i contrasti, strutturare le patologie, fissare le difese, irrigidire in maniera irreversibile i comportamenti delinquenziali. Impulsi non controllati (specie quelli aggressivi) si comportano un po’ come lo sviluppo economico di questi decenni: in economia la crescita può produrre rifiuti, smog e masse di merci incontrollate così come la crescita degli impulsi psichici non controllati può produrre delinquenza, caos, crimini, guerra, quali espressioni di masse di individui la cui funzione dell’Io è profondamente pregiudicata.

In questi giorni ci colpisce profondamente il caso del piccolo Tommaso e il suo triste epilogo: ebbene molti avranno visto l’intervista al suo rapitore-assassino reo confesso, e avranno visto il padre di Tommaso parlare – consciamente ignaro – del pregiudicato assassino di suo figlio come di una persona perbene, educata, i cui figli giocavano con suo figlio. Di questa personalità criminale, come di tante altre, sono andati persi gli indizi e i precursori che, sicuramente visibili nella sua storia infantile sottoforma di comportamenti asociali, aggressivi e impulsivi, oppure autistici perversi, erano chiari messaggi di una futuribile delinquenza adulta.

L’esigenza del grande giurista austriaco Liszt, secondo cui i tribunali debbono prendere posizione non difronte al fatto ma difronte al delinquente, rimane ancora oggi solo un pio desiderio, nonostante S. Freud (ma anche C. G. Jung, S. Ferenczi, W. Reich) abbia magnificamente sviluppato in forma scientifica l’esplorazione della personalità umana. Attendiamo, idealmente insieme ad Alexander e Staub, l’ingresso della psicoanalisi nella sala d’udienza, che costituirebbe il primo passo verso la realizzazione di tale esigenza, poiché “quand’anche nei casi che maggiormente colpiscono, viene riconosciuto uno stato di infermità e ciò più per il colpo d’occhio psichiatricamente sperimentato che per esatto sapere psicologico, è sempre impossibile, senza una esperienza psicoanalitica, comprendere più profondamente queste personalità e loro azioni“.

Tu non resterai bambino!

di Nunzia Tarantini | in Adolescenza, Blog

La paura di restare bambino lo spinge in avanti e la paura di andare in avanti – e quindi crescere – lo spinge indietro.

La condotta sociale dell’adolescente può essere estremamente provocatoria e mettere a durissima prova una famiglia e una comunità sociale: questo perché l’adolescenza è una fase critica, in cui la personalità subisce una profonda trasformazione, vi è una fondamentale modificazione dell’equilibrio, caratterizzato da tendenze simultanee sia alla disorganizzazione che alla riorganizzazione emotiva. Da questa antitesi emerge la struttura permanente della personalità adulta.

Durante il periodo adolescenziale eventuali fasi precedenti caratterizzate da tensioni psichiche vengono riattivate, le debolezze latenti vengono alla luce e da questi tipici meccanismi emergono le più svariate manifestazioni del cambiamento adolescenziale: insicurezza, instabilità degli stati d’animo e delle azioni, egocentrismo, pulsioni sessuali, esibizionismo, una immagine di sé in trasformazione, disorientamento emotivo, difficoltà nei rapporti con il proprio corpo, preoccupazioni per il proprio aspetto fisico e la propria salute, timidezza e paura di esporsi, timore dell’insuccesso, sete di indipendenza, ribellione, aspirazione ad essere grande in qualche campo. Inoltre mentre nella cerchia familiare l’adolescente si ribella, fuori dalla famiglia prevale il bisogno di confondersi alle abitudini del gruppo.

Quali sono gli atteggiamenti che i genitori devono evitare per consolidare l’individualità del proprio figlio adolescente?

È necessario escludere:

1) l’instabilità emozionale degli adulti, che per l’adolescente costituisce una continua minaccia al suo già precario senso di sicurezza;

2) modelli confusi, ciecamente aggressivi e ciecamente dubbiosi che provocano nell’adolescente confusione o panico.

Non solo i genitori devono essere modelli pregnanti di continuità e coerenza comportamentale, ma anche le istituzioni scolastiche e sociali devono esserlo. Qui sono deleteri stili inadeguati quali:

1) modelli miseri, tra il grottesco e primitivo, privi di una coscienza etica, indifferenti alla guerra, alla distruzione della vita e dei beni su scala smisurata, freddi davanti alla sofferenza e alla mutilazione di altri esseri umani, che nell’adolescente provocano autentiche crisi di abbandono.

2) realtà in cui i codici sono di sfrenata aggressività competitiva e in cui prevale solo il successo freddo e disincarnato, i cui effetti sulla psiche adolescenziale determinano grande disorientamento emotivo, poiché gran parte degli stili educativi indottrina l’adolescente stesso, fin da bambino, a cooperare e a condividere le sue cose con gli altri.

In un ambiente familiare o socioculturale che è in continuo cambiamento, instabile e imprevedibile, l’adolescente avverte un senso di pericolo e di questo pericolo coglie in maniera tragica l’aspetto indefinito.

La lotta personale per una identità stabile nell’adolescente può essere garantita solo da una famiglia con una identità stabile, cioè con emozione e comportamento stabili, e da una società i cui modelli rappresentano ideali e coscienza autentici.

Giorno dopo giorno l’adolescente deve ricavare dalla vita, dalla gente e dalla sua esperienza ciò che egli avverte mancargli, in modo da poter salire ancora un po’ sulla scala della superiorità e avvicinarsi, agli occhi propri e degli altri, ancora di un gradino all’immagine ideale di sé stesso.

Salviamo Babbo Natale!

di Nunzia Tarantini | in Blog, Infanzia


Fonte: www.santaclauslive.com.

Mi chiedo perché molte madri dopo le vacanze natalizie mi riferiscono che i loro figli presentano più sintomi della media. Perché tanto malessere? I troppi dolci, i mille oggetti, o un cattivo comportamento di genitori e società nel far vivere al bambino i simboli del Natale?

Una cosa è certa: sempre più spesso i bambini vivono i riti natalizi in maniera amplificata, con tanto reale e poco simbolico. Gli oggetti aumentano a dismisura e la fantasia del bambino diminuisce.

Solitamente a queste madri rispondo: “Salviamo i simboli”, e soprattutto “Salviamo Babbo Natale!”.

Da dove viene Babbo Natale e dove sta andando?

Forse siamo adulti così miopi da aver perso il significato originario dell’antico simbolo del Padre buono, della Guida del “gregge infantile”, del Pescatore delle azioni infantili sane, che stringe tra le braccia i suoi figli sotto forma di doni.

Il simbolo del Babbo Natale esprime la figura del padre: il padre dei bambini è spesso un pastore, un sognatore, un vecchio sapiente e non una sorta di grasso imbecille che sostituisce alla renna una comoda hall nello spazio morboso dei grandi magazzini, o che a guisa di ladro si arrampica sui balconi come per entrare a prendere la sua refurtiva.

È un simbolo ormai congelato, associato di continuo a forme di oralità spropositata, sfruttato da slogan televisivi che lo legano ad oggetti da vendere: non più la barba bianca, non più renne, non più la slitta che scende da alte montagne, ma l’associazione è a cibo e giocattoli, tramite una continua proiezione di valori economici. Nasce qui un processo di scalzamento dell’immagine di Babbo Natale nella mente del bambino.

I bambini a cui è tolto il vissuto simbolico del Babbo Natale saranno costretti a divorare l’equivalente in cioccolato, e l’equazione sarà: meno simboli = più oggetti.

Il sognatore non sarà più il bambino ma l’adulto, che cercherà di sfruttare questa figura associandola a nuovi significati, per lo più commerciali. Dietro questo adulto sognatore si cela il lato meschino di un uomo inferiore che con metodi gretti e corrotti e per i suoi vantaggi o profitti momentanei, senza alcuna prospettiva etica, divora i simboli, determinando la morte di una realtà interiore estremamente importante per l’intero mondo infantile. L’immaginario nel bambino viene così a crollare, perché quel simbolo così sciupato, da congelato è diventato morto.

È facile pensare che questi bambini, in età adulta, si creeranno l’immagine del Babbo Natale tramite una dose di droga.