Il bambino disegna le sue ossessioni (1)

di Nunzia Tarantini | in Blog, Infanzia

Analizziamo* alcuni simboli che il bambino usa quando vuole esprimere manifestazioni ossessive. Continua a leggere »

Le manifestazioni ossessive nel bambino

di Nunzia Tarantini | in Blog, Infanzia, Prima infanzia

La prima domanda che una madre si pone quando vede dei rituali che si ripetono nel suo bambino è volta a dare un nome a queste manifestazioni, per riconoscerle e curarle. Sapere che spesso questi rituali con carattere coatto e ripetitivo, che il bambino mette in atto nel suo agire quotidiano, sono manifestazioni di tipo ossessivo è fondamentale per intraprendere strategie di intervento appropriate. Continua a leggere »

Mio figlio tiranno

di Nunzia Tarantini | in Adolescenza, Blog, Infanzia

S. Freud sottolinea che ogni bambino passa attraverso un periodo di nevrosi infantile. M. Klein ci mostra che il primo sviluppo infantile abbraccia due fasi in cui insorgono ansie di natura psicotica, cioè fantasie e sentimenti deliranti, sia persecutori che depressivi. Normalmente il bambino, crescendo, guarisce perfettamente, in caso contrario egli porterà tracce nella vita adulta e a un certo punto presenterà una nevrosi manifesta. Psicosi nella fase adulta si trovano, come K. Abraham dimostrò per primo, perché già esistenti nella prima infanzia. Continua a leggere »

La primitività della psiche infantile

di Nunzia Tarantini | in Blog, Infanzia, Prima infanzia

Nell’evoluzione psicoistintiva del bambino i genitori non tengono sufficientemente conto degli elementi aggressivi o distruttivi e di quanto questi elementi effettivamente agiscano, nell’interiorità psichica e nell’inconscio del bambino, quali produttori di conflitti e angosce.

Spesso si da troppa importanza all’ambiente familiare come tale, agli errori degli adulti, alle influenze esterne educative e repressive; troppo poca ai conflitti essenziali inerenti agli istinti bassi propri del bambino, che non ha un Io strutturato, sufficientemente sviluppato per controllare e modificare tali istinti. Inoltre si da pochissima importanza ai modi estremamente irrealistici e fantasiosi con i quali il bambino elabora i dati dell’esperienza.

Seguendo le indicazioni di M. Klein si deve sottolineare che:

1. Il bambino viene al mondo con una “dotazione di istinti” riconducibili, come aveva postulato S. Freud, sotto i segni contrastanti e conflittuali dell’amore e della morte, della sessualità e della distruttività;

2. I rudimenti di un Io sono già presenti nel primissimo periodo della vita infantile, ed è per questo che possono aver luogo anche conflitti sul piano della attività psichica;

3. Il bambino, anche di poche settimane, è in grado di sperimentare l’esistenza degli oggetti e di stabilire “rapporti oggettuali”; con essi può instaurare relazioni antagoniste, generatrici di angoscia e costituenti i nuclei primari di situazioni di frustrazione.

Un genitore desideroso di educare la psiche primitiva di suo figlio deve capire e cercare di interpretare le fantasie, le sensazioni, le ansie e le esperienze da lui espresse nel gioco. I momenti di gioco del bambino sono spesso esplorati dalle nonne o da sostituti materni (per esempio: operatori di asili nido o scuole materne) che vedono nel gioco del bambino più l’aspetto “occupazionale” che “simbolico e rappresentativo” di stati d’animo conflittuali.

Il gioco è per il bambino la via principale all’espressione dell’aggressività, in vari modalità, direttamente o indirettamente. A tal proposito è essenziale capire come nel bambino in un certo particolare momento affiorino impulsi distruttivi: per il genitore osservare lo strutturarsi di questi impulsi, le conseguenze, il senso e il significato di tali comportamenti assume senz’altro valore terapeutico.

Tipicamente sentimenti di colpa possono manifestarsi dopo la rottura di un giocattolo. Tale colpa non va solo riferita al danno che il bambino ha procurato ma anche a ciò che il giocattolo rappresenta nell’inconscio del bambino, per esempio un fratellino, una sorellina o lo stesso genitore. Veri e propri attacchi fisici fatti da un bambino ad altri bambini devono portare un genitore a capire che se suo figlio non riesce a contenere l’aggressività entro certi limiti, forse le fantasie aggressive del bambino sono troppo inibite. Si consideri che un buon modo di permettere a un bambino di esprimere le sue fantasie aggressive è il disegno.

Il genitore che mostra disapprovazione per il figlio che ha rotto un giocattolo eserciterà un influsso educativo o morale, ma non comprenderà le emozioni e le fantasie che vengono fuori nel figlio tramite quel gesto: l’atteggiamento del bambino verso un giocattolo da lui danneggiato è molto rivelatore! Spesso il bambino accantona il giocattolo rotto che rappresenta, per esempio, un fratellino o un genitore e lo ignora per qualche tempo. Ciò indica l’avversione per l’oggetto dovuta alla paura di essere perseguitato, alla paura cioè che la persona assalita diventi vendicativa o pericolosa. Se un bel giorno il bambino cerca tra i suoi giocattoli quel particolare giocattolo danneggiato, significa che è avvenuto un cambiamento nei rapporti del bambino, con quel particolare fratellino o genitore rappresentato dal giocattolo e che l’ansia legata alla persecuzione è diminuita.

L’importanza di tali cambiamenti è di enorme importanza per il genitore, che spesso deve conoscere questi codici di significazione se vuol essere il primo ed unico a gestire la formazione del carattere di suo figlio.

La pratica quotidiana dimostra che forte è l’assenza di senso e significato da parte dei genitori verso i propri figli. Riflettiamo sulla classica scena estiva che spesso rivive un terapeuta – che pure di norma evita di analizzare ad infinitum – quando vede in vacanza una madre con i propri figli. La prima domanda che quel terapeuta si pone è: “Questa madre conosce i propri figli o è la prima volta che si cimenta in tale conoscenza?”. Elicitata anche da semplici scene, quasi tutte identiche e ripetute da diverse madri con lo stesso stile. Descriviamone una in particolare: una madre è circondata da due figli gemellini. Percorre un po’ di strada con uno dei due, l’altro lo lascia vicino al padre. Il bambino ha in mano un giocattolo e lo scaglia a terra più volte, la madre “distratta” lo prende e lo ridà a suo figlio, il quale lo rilancia con maggiore violenza. La madre “distaccata” lo raccoglie e glielo rimette in mano, il bambino incrementa l’aggressività nel lancio dell’oggetto e la madre “imperturbabile” lo riprende e glielo riporge.

Ma è possibile che questa madre “guru” neanche per un attimo si accorga che quel giocattolo scagliato “è il fratellino”? Che cosa altro dovrebbe fare il piccolo per mostrare la sua violenta gelosia? La scena non finisce qui perché intanto il padre svincola il secondo gemellino per lasciarlo andare verso la madre e a questo punto la situazione “precipita”: sopraggiunto, il bambino raccoglie il giocattolo lanciato più volte dal fratello rivale e, nell’incoscienza dei genitori, la scena si chiude con il pianto di entrambi i bambini incompresi.

Siamo quasi costretti a porci questa domanda: forse il fratellino che era con il padre ha capito l’intenzione inconscia del fratello rivale ed è corso a salvare il proprio corpo, aggredito tramite quel giocattolo, mentre mamma e papà, ignari di tutto, fissavano il mare e iniziavano a godersi le vacanze.

Allora buone vacanze ai genitori, visto che la cecità psichica non toglie certo l’abbronzatura.

Ancora un blackout

di Nunzia Tarantini | in Avvisi

Ancora un “blackout”, stavolta di quasi 24 ore: ne stiamo accertando la causa insieme al nostro fornitore di hosting, dopo aver messo su alla meglio il blog con alcune limitazioni (per adesso è impossibile commentare, per esempio).

Scuse particolari ai miei studenti di Firenze, non perché siano diversi da tutti gli altri ma semplicemente perché sono sotto esame e si sa in questi casi è sempre in agguato una qualche legge di Murphy.

In ogni caso un link veloce alla loro pagina.

La scuola: “moi-peau”

di Nunzia Tarantini | in Blog, Infanzia, Scuola e istruzione

La scuola è il primo contenitore sociale che il bambino contatta dopo la famiglia. Come contenitore, secondo la concezione di Didier Anzieu, la scuola deve garantire un involucro le cui funzioni sono di legame e delimitazione della realtà psichica, mentale e fisica. In questo senso essa diventa prima “pelle psichica” (Esther Bick), vista come forza primitiva affettiva che funge da barriera tenendo insieme le varie parti della personalità, poi “pelle mentale” e come tale organizza gli elementi dello psichismo.

La scuola intesa come involucro psichico deve:

  • non essere concepita come spazio statico ma dinamico: il bambino intanto apprende in quanto vive chiare relazioni, verticali e centrali con gli insegnanti, orizzontali e laterali con i compagni di classe;
  • permettere una giusta sintesi tra contenuto e forma: il bambino intanto apprende in quanto ogni contenuto didattico, educativo e disciplinare è veicolato nella giusta forma;
  • essere paragonata ad un campo di forze, come quello sviluppato attorno ad una calamita: il bambino intanto apprende in quanto si sviluppa una sinergetica dell’insegnamento, ovvero tutti i componenti della classe compresi gli insegnanti tendono in un’unica direzione.

Solo in questa concezione la scuola diventa un attrattore, assumendo sia una forma nella quale la forza si trasforma in opera che le caratteristiche strutturali dell’involucro psichico, ossia di quell’abito che naturalmente l’alunno indossa perché lo sente suo.

Ma come ogni abito per essere perfetto va realizzato su misura, anche l’involucro psichico, proprio della scuola, deve garantire all’alunno una forte appartenenza, tramite cui egli deve sentirsi collegato con tutte le parti del sistema scolastico, oltre a un immediato senso di connessione, che naturalmente lo porta a sentire la sua classe come un unico corpo, e infine una reale compatezza, che gli fornisce la sensazione di una classe senza buchi quasi come prosecuzione naturale del seno buono propiziato dalla madre.

Quest’ultima caratteristica é fondamentale in quanto la prima angoscia che si sprigiona nel profondo del bambino, nel suo primo giorno di scuola, è quella dei buchi, degli orifizi che si chiudono male, delle fessure e delle smagliature. Non è difficile capire questa angoscia, di cui spesso non si è consapevoli neanche in fase adulta, che quando è vissuta può esprimersi nella semplicità di un immaginario: è il caso dell’individuo che si trova per la prima volta su una barca e la sua prima sensazione è quella dei buchi presenti sul fondo che “porteranno inevitabilmente” quella barca ad affondare o a riempirsi di acqua.

Per fecondare questa angoscia l’insegnante si deve trasformare in un abile marinaio, declinando in maniera matura le sue competenze e la sua personalità: come centro di riferimento per gli alunni sarà una vera e propria ancora di salvataggio, equilibrando senza grandi sforzi il vissuto interno di quell’angoscia.

L’insegnante capace di garantire un gruppo scolastico compatto, coeso e connesso, permetterà anche di fecondare altri tipi di angoscia: quella di smembramento è la più significativa in quanto il bambino-alunno, in una situazione ignota come il primo giorno di scuola, sente il suo corpo “a brandelli”. È la potenza di questa fantasmatica a sviluppare fobia sociale, ansia di separazione, attacco di panico, mutismo, vuoti di attenzione e di memoria e altri sintomi di primaria importanza in alunni che poi risultano:

  • ipersensibili e vulnerabili, altrimenti modernamente considerati “iperattivi”;
  • con problemi di controllo degli sfinteri;
  • con molti capricci ed eccessiva eccitazione, anch’essi modernamente considerati “iperattivi”;
  • che non tendono a reagire agli insegnanti e che non sorridono molto e niente sembra motivarli;
  • che piangono moltissimo esprimendo rumorosamente la propria paura;
  • che hanno un’espressione assolutamente assente e priva di vita;
  • che non si concentrano su niente e nessuno.

Il contenitore scolastico in questo caso deve sviluppare calore, ossia deve essere un vero e proprio sistema psichico, simile a quello descritto da S. Freud nel 1911 quando paragona il sistema psicologico chiuso ad un uovo di uccello che contiene entro il proprio guscio la riserva di cibo: il cui calore è tutto ciò che gli riserva la madre.

Forme di calore garantite dall’insegnante creano all’interno di una classe un clima affettivo fiducioso e ciò permetterà all’alunno di sviluppare una fiducia di base sia verso l’insegnante che verso i compagni. Il clima sarà una valida “misura terapeutica” per curare le tante forme di isterismo ed eccitabilità dell’alunno, il cui Io a causa di una maturità insufficiente non può integrare soluzioni mature.

Le tante forme di calore che un insegnante si accinge ad attuare devono essere ben delimitate da barriere, poiché un contenitore scolastico caldo e protettivo deve possedere una barriera, intesa come bordo che delimita il contenitore, che crea un territorio fisso e che permette agli alunni di sviluppare il pensiero, come sforzo di concentrare l’attenzione su un oggetto, grazie a barriere presenti nel contenitore, accompagnato dal divieto di lasciarsi distrarre da altri oggetti, dalla presenza di pensieri parassiti, dal perdersi in digressioni ed in facili regressioni: pensare infatti significa contornare, accerchiare un campo o un territorio epistemico, segnalare dei cammini all’interno. Sviluppa il pensiero l’alunno che sia stato circondato da un chiaro entourage scolastico che “abbia pensato per lui”: pensare significa “abbracciare una questione”, ma prima di abbracciare bisogna “essere stati abbracciati”.

In ogni caso la presenza di troppe barriere crea contenitori scolastici chiusi, il cui rischio è una forma di relazione congelata tra alunno e insegnante. In questa situazione prevarranno nell’alunno fantasmatiche di attacco e di decostruzione, di scorticamento della pelle, e di fuga verso contenitori aperti e attivi. Se poi le barriere diventano troppo rigide, l’angoscia derivante nell’alunno sarà l’angoscia del claustrum (di essere rinchiuso, prigioniero dei limiti).

L’assenza eccessiva di barriere crea invece contenitori scolastici frammentati la cui angoscia tipica è l’angoscia del perdersi (assenza totale dei punti di riferimento forniti dai limiti), con conseguente stato di depressione, vissuto come perdita dell’oggetto, perdita del contenitore, perdita del desiderio contenuto nel contenitore e fuga alla ricerca di contenitori artificiali, incapaci di sviluppare la funzione psichica di contenere un contenuto.

Un contenitore scolastico deve sviluppare negli alunni sicurezza narcisistica, con assenza totale di stati di indifferenziazione e di fusione allucinatoria e delirante con l’insegnante, deve essere un vero e proprio Io ausiliare che ha la funzione di scudo protettivo e non possedere nessuna condizione ambientale caratterizzata dall’atmosfera “da frigorifero”, deve essere stabile ma flessibile, caldo ma protetto da barriere, aperto ma con saldi limiti. Questa tensione degli opposti fa di ogni contenitore, compreso anche quello scolastico, qualcosa di complesso nella costruzione ma di sicura garanzia nel suo funzionamento intrinseco.

Blackout

di Nunzia Tarantini | in Avvisi

Come molti di voi avranno notato abbiamo avuto un “blackout” di quasi 48 ore: la causa è dovuta a un grave guasto occorso all’infrastruttura del nostro hosting provider TopHost, come potete leggere qui, prolungatasi a sua volta per le lungaggini di IBM, produttore del componente hardware danneggiatosi.

In ogni caso ci scusiamo per l’eventuale disagio.

Non sono più un bambino! (II e ultima parte)

di Nunzia Tarantini | in Adolescenza, Blog, Infanzia

Trattare il proprio figlio come un eterno bambino significa rischiare di divorarlo. Il “genitore che divora” porta il bambino a sentirsi psichicamente morto o intorpidito e questa condizione caratterizza la sua infanzia così come anche la sua adolescenza negli aspetti più intensi e significativi.

Il bambino intorpidito spesso vive una continua assenza di significato nel gioco e nelle relazioni in genere, abbandona di continuo un gioco per intraprenderne un altro, sperando così di liberarsi dal torpore e dalla noia.

Genitori premurosi e troppo prodighi di cure, madri particolarmente seduttive, possessive e castratrici producono figli con violenti attacchi di collera. Così se il figlio rappresenta in realtà per sua madre il proprio uomo (“Ecco il mio ometto!”), per la coppia genitoriale rappresenta invece un alter ego (“È tutto suo padre!”).

In queste situazioni la madre non riesce a tollerare che il figlio provi paura e odio: ha bisogno che suo figlio sia felice, che gioisca e che provi una continua eccitazione. Per questa madre affrontare gli impulsi distruttivi di suo figlio, così come gestirne la frustrazione, è impossibile: tenta perciò di eliminarli con amore ambivalente e parole suadenti. Il suo tentativo però si rivela semplicemente un insuccesso: il bambino sente che le eccessive attenzioni dei genitori producono svuotamento più che nutrirlo e non gli forniscono una “attrezzatura psichica” per elaborare in modo autentico le proprie inquietudini. Si instaura così una diretta proporzionalità tra eccessiva gratitudine nei genitori e morte psichica nel bambino: da questa situazione può derivare in età adulta una profonda inerzia psichica che minaccia di fagocitare la sua esistenza, con i suoi valori e le sue costruzioni, e che, in quanto derivata da un divoramento in età infantile, non scompare mai ed anzi diventa una vera e propria controfigura dell’esistenza.

Perché la madre o i genitori divorano il proprio figlio?

Il divoramento esprime una forte dipendenza dei genitori dal proprio figlio e di solito è il prodotto di una madre ansiosa e repressa, talvolta depressa, e di un padre colpevolizzante che tramite una “regola imposta” non favorisce la crescita interiore del proprio figlio: il senso di morte che il bambino può assumere tramite esperienze di divoramento da parte dei genitori può assumere varie forme e comparire in contesti diversi, ma la sua connotazione di base sarà quella di menomare una intera esistenza. Il divoramento è una oscura incapacità o resistenza al cambiamento, una pulsione troppo viscosa e instabile, troppo lenta per spostarsi su nuove realtà, che una volta riversata e fissata sui figli si rivela abortita e cortocircuitata.

In questi genitori, tutti i rapporti di forza, i processi, le relazioni appaiono immutabili, fissi e irrigiditi: S. Freud sottolinea che si ha l’impressione di una “forza che si oppone con ogni mezzo alla guarigione”, un vero e proprio istinto o attrazione verso la stasi.

Ferenczi fa notare che nel bambino la “frattura nella volontà di vivere” può insorgere come risultato dei “segni in cui la madre manifesta il proprio rifiuto e la propria impazienza” e che l’affetto materno è importante, è “un amore senza limiti”, e se viene a mancare il bambino soccombe ad una sorta di riflusso distruttivo. Questa posizione non va contrapposta a quanto si è argomentato finora, ma integrata per meglio comprendere l’importanza della responsabilità dei genitori nel coadiuvare il viaggio del bambino verso la vita.

Infine se per Winnicott la madre “segna il figlio” e questa è una verità indiscutibile, è meglio non dimenticare che sull’altro piatto della bilancia saltella un irrefrenabile birichino che lanciando boccacce alla madre sfugge inesorabilmente al suo controllo, la calpesta e da buffone tutt’ad un tratto diventa padrone.

Omaggio a “una vita intensa”

di Nunzia Tarantini | in Blog

Ho sentito il bisogno di premettere alcune righe agli scritti di mio padre per offrire un contributo, anche modesto, alla comprensione di un uomo che ha “sentito” la psicoanalisi quando era eresia e quando per essa si rischiavano titoli accademici e facili professioni, quando, confortati solo da pochissimi altri, occorreva molta solidità per non temere di essere caduti nella follia.

Con queste parole scritte nel 1976 sulla rivista Quadrangolo ricordava la figura del suo grande padre Nicola, la cui azione scientifica si sviluppò con grande ampiezza nel campo della psicoanalisi, di cui fu un incontestabile pioniere. Oggi, ad un anno esatto dalla sua morte, chi è stato allievo di Paolo Perrotti nel suo corso di psicologia dinamica sul finire degli anni Settanta non può non ricordare il “padre analitico” che è stato: uomo semplice, essenziale, disadorno, con la sua neutralità, propria del magistrale analista, ha fatto sopravvivere e pulsare il patrimonio lasciato da Freud, instillando con discrezione in chi lo seguiva il suo stesso rigore nella ricerca scientifica e nella applicazione della tecnica.

Ancora grazie, Maestro!

Non sono più un bambino! (I parte)

di Nunzia Tarantini | in Adolescenza, Blog, Infanzia

Man mano che il bambino cresce grazie alle cure materne, viene ricondotto dalla madre stessa ad una maggiore consapevolezza verso l’ambiente: in termini di energia o di carica libidica ciò significa che deve aver luogo un progressivo spostamento della libido dall’interno del corpo verso la sua periferia.

Il bambino deve scoprire il mondo, superando il suo più grande desiderio: quello di restare incollato alla madre e al suo utero in uno stato di indifferenziazione e fusione, con conseguente allucinazione delirante del desiderio.

La simbiosi tra madre e figlio rappresenta la più grande minaccia per lo sviluppo del bambino: ciononostante il vissuto emozionale delle madri si rivela spesso inadeguato ad avvertire la necessità dei figli di separarsi da loro. Ci sono madri che amano i propri figli con modalità scandalose, perdonando incessantemente i loro errori, le loro colpe e loro pazzie: con loro spesso il bambino esagera con sfide impossibili certo che non gli potrà accadere nulla, perché lei è lì sempre pronta ad “amarlo”.

Per il bambino diventare ragazzino, adolescente o uomo significa innanzitutto “allontanarsi dalle sottane della madre”: questa istanza si reitera in ciascuno dei passaggi della sua vita. Più il legame con la madre è profondo e più prenderne le distanze può comportare conflitti duri da risolvere. Paradigmatica è la sorte di tanti emigrati che, dopo aver fatto scelte di matrimonio e figli, vivono improvvisamente un forte impulso a tornare nel proprio luogo natio e vivere vicino alla propria madre.

Certo il bambino nei primi anni di vita, ossia tra l’anno e mezzo e i tre-quattro anni, vive l’angoscia di separazione quando la propria madre si allontana per lasciarlo all’asilo o a scuola, e questo timore che la propria madre scompaia se lo porterà, in forma conscia o latente, per l’intera sua esistenza.

La possibilità che la madre si allontani o, nel peggiore dei casi, muoia, trasforma all’individuo, bambino o adulto che sia, la visione del mondo rendendola cupa e spesso sconvolta. Si pensi a coloro che ripercorrono luoghi vissuti in passato con la propria madre, e che rivivendoli senza di essa non ritrovano lo stesso antico fascino vissuto in un viale, in una cascina o in un castello della propria città, ma vedono solo mucchi di pietre e marmo simili a tanti altri. Forse in quell’istante si faranno rapire da sensazioni diverse, più adatte ad avvicinarli all’immagine interiore materna: un pescatore che fissa il mare fermo sulla sua barca, una antica melodia o la semplice visione di un oleandro.

Per il bambino diventare grande significa mostrare un forte narcisismo sotto forma di aggressività, in quanto egli è teso a realizzare la conquista di un posto “fuori dal proprio sé”. Winnicott pone questo movimento di conquista alla base di ogni sviluppo, in particolare nella fase adolescenziale: esso rappresenta l’uccisione simbolica dell’immagine interiorizzata dei genitori emersa durante l’infanzia, ossia la rappresentazione elaborata dal bambino dei propri genitori.

Ma a questo processo è proprio la stessa madre che pone dei limiti spesso visibili in quella insostenibile ansia che prova nel sentirsi abbandonata dal proprio figlio ormai adolescente. Di qui le repentine oscillazioni di umore della madre, il suo precipitarsi in rigide forme di educazione risalenti all’infanzia, o, peggio, l’invocazione imbarazzante di un padre che dia la regola, improvvisamente dotato dalla stessa madre di una identità posticcia, più simile invero ad una caricatura di padre virile senza una identità.

Frasi pronunciate dal suo adorato figlio simili a: “Mamma sei cattiva!”, o ancora “Non ti voglio più bene!”, sono spesso modi che il bambino vive per non sentirsi più “legato alla sottana della madre”. La stessa però non gradisce quasi mai queste formule, e le giudica moralmente, non percependo la fantasmatica di allontanamento che il bambino sta inscenando come in uno psicodramma. In questi casi se è giusto che la madre rettifichi il contenuto della comunicazione del bambino è anche indispensabile che comprenda il profondo senso della sua comunicazione.