Mamma, papà: io non vi ho scelti!

Rosa, 13 anni, disegna la sua famiglia.

Rosa, 13 anni, disegna la sua famiglia.

“Il coccodrillo ha rapito a una madre il bambino. Alle preghiere di restituirlo, il coccodrillo replica che acconsentirà se la madre darà una risposta vera alla domanda: «Restituirò il bambino?». Se la donna risponde: «Sì», la risposta non è vera, e il coccodrillo non renderà il bambino. Se risponde: «No», in questo caso la risposta è vera. La madre ha quindi perduto in ogni caso il bambino.”

Si tratta di una quaestio crocodilina, riferita da Carl Gustav Jung in Psicologia della figura del Briccone (Carl Gustav Jung, 1954).

“L’esame del legame originario che unisce il figlio alla madre mette in luce i fattori che contribuiscono alla formazione del carattere di una persona adulta, in modo e in misura spesso difficile da determinare”. (Esther Harding, 1969)

Molti psicologi e psicoterapeuti che si basano sull’esame dell’inconscio giungono spesso alla conclusione che se una parte centrale della femminilità è occupata dal confronto di una donna con la maternità, in realtà poche donne affrontano davvero i propri conflitti circa questa nuova condizione.

Sebbene la nascita dei bambini in alcune coppie sia pianificata, in altre invece no, non è detto che ciò significhi che donna e/o uomo si siano disposti a riflettere fino in fondo sulla propria situazione interiore, o perlomeno abbiano provato a chiarire a se stessi i moventi interiori circa l’accettazione o il rifiuto di un figlio: tale inconsapevolezza produce una profonda situazione di ambivalenza nell’atteggiamento genitoriale le cui conseguenze finiranno per ricadere sulla psicologia del figlio.

Fra l’altro se fin dai tempi antichi il legame tra madre e figlio ha generato nell’immaginario collettivo rappresentazioni simboliche o ideali contrastanti – da un lato una madre benevola e protettrice, portatrice di vita e di energia pura, dall’altro una madre castratrice e divoratrice, simbolo di pericolo e persino di distruzione e morte; oppure madre martire da una parte e figlio beato dall’altra – dovremmo saper fare tesoro di questo bagaglio di opposti e senza perderli mai di vista tendere a integrarli per essere liberi di seguire quella via in cui madre e figlio possano soddisfare la propria individualità, senza annullare o soffocare il diritto di ciascuno al proprio sviluppo e alla propria maturità. Questo percorso però risulta spesso impossibile, in quanto manca sia la consapevolezza di ciò che realmente si vuole sia quel pizzico di saggezza che permetta di scongiurare gli effetti distruttivi di un narcisismo patologico con l’accettazione dei limiti del proprio potere fisico, intellettuale ed emotivo.

Nulla può aiutarci a capire perché nel bagaglio di un genitore degno di questo nome non debba mancare quell’atteggiamento umano che chiamiamo saggezza più che attraversare alcuni esempi di vita quotidiana in cui un genitore saggio non è.

Dopo l’ennesima esplosione di violenza verso il figlio un genitore si pente: “È stato solo un momento. Ho perso il controllo” ripete a se stesso. Forse sotto sotto qualcosa montava e il genitore cercava di reprimerla, ma poi è successo. I figli esplodono, poi esplodono i genitori in una distruzione parossistica. Succede. Talvolta l’accesso di ira riporta il sereno, ma più spesso sortisce eventi devastanti. Il genitore parla proprio come chi parla di masturbazione o di altre forme di dipendenza: “Continuo a ripetermi che non lo farò più, ma è una cosa che aumenta e sfoga da sé”. Molti genitori sono soggetti a questi accessi e a vera e propria collera, a trattare il proprio figlio un minuto prima come il bene supremo donato a loro da Dio in persona ed un minuto dopo a ritenere che il proprio figlio sia una “peste bubbonica”.

Una madre ricorda il momento in cui ha avuto suo figlio: era felice, radiosa e fiera di aver generato un bambino di ben quattro chili. Ma quel ricordo è un’isola a sé stante nella mente di questa donna, perché a distanza di cinque anni – l’età attuale di suo figlio – racconta solo i mille e mille sacrifici che ha dovuto fare, le notti passate vicino al figlio, i comportamenti duri e aggressivi “verso questo figlio ribelle”. Sembra che nel vissuto profondo di questa donna sia rimasto nient’altro che mutilazione e sacrificio dovuti a suo figlio. Chi potrebbe esitare nel rispondere alla domanda: “Pensate che sia una maternità accettata, o che sia invece in buona parte rifiutata?”.

Infine un uomo, padre di tre figlie, a cinquantaquattro anni prende coscienza di aver avuto un rapporto deleterio con le figlie. È stato un padre indulgente e superficiale, ma soprattutto assente. Voleva molto bene alle sue figlie, ma solo oggi riesce a capire che la maggior parte del tempo passato al lavoro altro non era che l’altra faccia della noia e della monotonia di vivere il rapporto paterno. Va ripetendosi ciò, non senza provare angoscia, perché ora vede gli esiti di questo rapporto e le conseguenti ferite nelle figlie: la prima figlia è debole e lamentosa, la seconda sembra vivere la vita con una miscela di fretta, frenesia e mancanza di controllo e infine la terza, legatissima alla madre, evita ogni sorta di contatto con il mondo esterno. Non avendo stabilito limiti per se stesso, non percependo la propria autorità interiore e non avendo stabilito un senso di disciplina e di ordine interno, soprattutto nel momento in cui è diventato padre, ha rappresentato un modello inadeguato per le sue figlie, intento com’era a rimanere puer aeternus, eterno fanciullo.

Da che cosa dipendono questi comportamenti è difficile dirlo: si può tentare una spiegazione tramite la figura del doppio.

Il doppio

La bestia

La bestia

La figura del doppio trova largo spazio nel mito, nella letteratura e nell’arte, nel folklore e nel cinema, e naturalmente nella letteratura psicologica e psicoanalitica, dove essa viene proposta come scissione, sdoppiamento o moltiplicazione dell’Io, ma soprattutto come Ombra. La figura del doppio come stato dell’Io è la situazione dell’Io che posto di fronte a se stesso vede uno spettro inquietante, è l’Io che osserva il proprio corpo dopo tanto tempo e ha la sensazione di esserne separato, tale da viverlo come una figura estranea, ritta e gesticolante accanto al proprio io. La figura del doppio sotto forma di Ombra presenta temi più inquietanti: l’immagine non somiglia al suo padrone, ma, al contrario, racchiude tutti gli aspetti che pur facendo parte della sua personalità, sono considerati inaccettabili e quindi rifiutati. L’Ombra rappresenta il lato non accettato della personalità, il lato oscuro di un individuo:

“La somma delle tendenze, caratteristiche, atteggiamenti, desideri inaccettabili da parte dell’Io, nonché delle funzioni non sviluppate o scarsamente differenziate ed, infine, dei contenuti dell’inconscio personale”. (Mario Trevi e Augusto Romano, 2009)

James G. Frazer ritenne che presso molti popoli primitivi il termine che definisce l’anima umana sia scaturito dall’osservazione dell’ombra o del riflesso del corpo nell’acqua (Frazer, in Otto Rank, 1994)

Molti studi basati sul folklore hanno dimostrato che l’uomo primitivo considera il suo misterioso doppio, l’Ombra, come un essere spirituale, ma reale.

“Un uomo del Camerun diceva: «Posso vedere la mia anima tutti i giorni, basta che io vada al sole»”. (Otto Rank, 1994)

Rohde, il più acuto interprete delle credenze e del culto greco dell’anima, ci ricorda che nell’uomo vivente, in cui l’anima sia integra, abita un ospite sconosciuto – un doppio più debole, il suo “altro Io” – che si presenta come la sua psiche, e il suo regno è il mondo dei sogni. Se l’Io cosciente dorme, il suo doppio si sveglia ed agisce.

Stevenson realizza la figura del doppio nel celebre racconto Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde. In questo racconto il doppio misterioso si scinde dall’Io per divenire autonomo e visibile, una sorta di ombra e di riflesso: è la figura del sosia, spesso descritta tramite un quadro paranoico integrato dall’ossessione.

Anche Andersen nella sua dolce favola, L’Ombra, narra la storia di un sapiente che vive nei paesi caldi. L’Ombra si distacca da lui e la ritroverà solo qualche anno dopo, sotto le sembianze di una persona indipendente. Lasciando al lettore la curiosità di leggere questa intrigante fiaba, ricorderemo che Richard Dehmel, in una breve poesia, anche essa intitolata L’Ombra, descrive con molta delicatezza il senso di mistero che prova un bambino davanti alla propria ombra, perché egli non sa che cosa essa sia:

“La cosa più strana è come cambia aspetto,
non con prudenza, come i bambini buoni.
A volte salta in alto più veloce del mio omino di gomma.
A volte si fa così piccola che nessuno può trovarla.”

Otto Rank presenta uno degli studi più penetranti sul problema del doppio nella letteratura e nel folklore elaborando una delle teorie più suggestive ed originali sulla psicologia dell’artista: una figura eroica che con tutte le sue forze cerca di esorcizzare con la sua arte l’Ombra terribile che lo perseguita, cioè la morte (Otto Rank, 1994).

Sigmund Freud nell’approfondire ancor di più la dinamica del doppio, soprattutto come sosia, parla di esso come del perturbante (Das Unheimliche) riferendosi a quella sensazione di spaesamento e di angoscia che cattura quando si è di fronte all’inspiegabile. Egli sottolinea che ciò che è escluso – rimosso – dalla coscienza è proprio ciò che più è noto, il familiare – l’Heimliche (da heim, casa)- che si trasforma nel suo contrario – l’Unheimliche – lo sconosciuto, diventando così fonte di angoscia: appunto il perturbante.

Nella concezione psicoanalitica il concetto di doppio comporta dunque una serie di riflessioni sull’Io, che nelle sue molteplici trasformazioni può addirittura dar vita a figure che sarebbe appropriato definire “comparse patologiche”. Succede soprattutto in persone alienate o in pieno disagio, che non sanno di esserlo, tramite una perdita catastrofica dell’identità che origina un’oscillazione tra un Io cosciente e un “altro Io” che invece affonda le sue radici in una parte profonda, spesso occulta e non visibile, chiamata Inconscio e nello specifico nella parte in cui si situa il rimosso, ossia quel materiale di cui non si vuole e spesso non si può prendere coscienza.

Esistono poi altri casi in cui si ritrova il quadro patologico del doppio: persone che stanno attraversando una trasformazione di qualsiasi tipo possono perdere una parte di se stessi, oppure mostrare al mondo un volto diverso rispetto a ciò che realmente sono, o realizzare una vita monotona e rigida trascurando l’altro aspetto libero e spensierato che la vita stessa o il proprio corpo gli offrono.

In entrambe le situazioni più l’individuo rimuove l’altra parte di se stesso (quella poc’anzi definita “altro Io”), più rischia di renderla autonoma, quasi come una persona reale, in grado di agire in maniera svincolata dal suo padrone. Il doppio è quindi l’effetto di un Io che si moltiplica o si scinde e che nei fatti mostra contemporaneamente l’opposto di ciò che la persona sta vivendo: si tratta di un’irruzione paradossale, proprio come quello che Otto Rank cita come “paradosso del suicida”, quello cioè di chi cerca la morte per liberarsi dell’angoscia di morte. È la stessa morte che in quanto scansata come lutto, come limite e dolore si ripresenta scabrosamente  nella nostra civiltà e nel reale come beffarda figura del doppio o del sosia.

Il doppio materno

Uomo-animale

Uomo-animale

Donne logorate dal continuo conflitto tra voglia e paura di essere madri o da una continua oscillazione tra l’amore per la libertà o per il proprio lavoro e la consapevolezza dei sacrifici che un figlio comporta, o afflitte dal desiderio di essere completamente sole e dalla necessità di volere un figlio possono creare “lo spaventoso fantasma del doppio il quale rappresenta i desideri segreti e sempre repressi dell’anima” (Otto Rank, 1994).

In queste situazioni è uno dei due poli del conflitto che nell’essere rimosso crea la scissione psichica che dà luogo ad un “altro Io”, appunto il doppio, il perturbante, da cui derivano le peggiori pulsioni distruttive.

Donne dominate dal pensiero, fortemente razionali, possono pensare all’assenza di maternità con un forte senso di colpa che crea in loro un profondo disagio, sotto la pressione esterna di genitori che vogliono diventare nonni o di un marito che ambisce a sentirsi completo con la nascita di un figlio. Non è affatto infrequente che il figlio venga concepito in risposta a questo atroce senso di colpa, ed è proprio il rifiuto provato da queste donne nel diventare madri che se non attraversato e opportunamente reso cosciente rischia di costituire il presupposto ideale per un modello di madre dalla doppia personalità: capace di amare e al tempo stesso di odiare ciò che ha generato.

Tra l’altro l’essere umano in generale sembra sempre più pervaso dall’ostinazione a cambiare a tutti i costi il corso della natura, ad imprimere brutalmente il ritmo della propria cieca volontà, a piegare ad una sottocultura o ad una mera convinzione personale finanche la natura di un utero, addirittura in età avanzata, così come l’intimo desiderio di non essere madri. In Occidente – ma ormai anche in un Oriente che va via via cedendo alla irresistibile seduzione che il peggio esercita puntualmente – si assiste quotidianamente al trionfo dell’idea di corpo come macchina, di macchina che deve funzionare secondo uno schema dettato dalle peggiori attitudini della mente umana, all’occorrenza mediante riparazione o sostituzione del componente guasto: e guai a chi osa ipotizzare che non sia saggio considerare l’essere umano come un’automobile o una gru! Saranno pronti per lui appellativi come controverso, irrazionale (sic!), mistico, stregone e via dicendo. Si tratta ormai di un fenomeno ad uno stadio paragonabile alla cecità psichica.

Ma tornando alla figura del doppio, essa è ben visibile in donne ma anche in coppie che con un eccesso di unilateralità della coscienza e con l’uso di un intelletto fortemente razionale sono determinate a programmare ogni cosa: quando mangiare, quando uscire, quando spendere o risparmiare, quando avere figli. Si tratta di soggetti con un occhio fortemente razionalistico che non mancheranno di farci presente che è “ragionevolmente” necessario migliorare le proprie condizioni sociali prima di avere un figlio, in realtà perché vivono un’eccessiva preoccupazione per il futuro, trascurando del tutto le enormi forze dell’inconscio, positive o negative, che ignorate dalla coscienza non possono far altro che trovare la propria espressione in maniera arcaica, spesso distruttiva e letale. Può accadere così che quando decidono che è il momento giusto per avere un figlio è il loro stesso corpo o l’altra parte di se stessi ad opporre resistenza, quasi a negare quel figlio solo ora desiderato.

Forse è difficile essere madri in quest’epoca e per questo bisognerebbe demolire un certo modo di pensare elementare, ingenuo ma soprattutto moraleggiante. Comunemente si tende a pensare che la gran parte delle donne desideri sopra ogni cosa avere un figlio e che solo dopo averlo avuto possa sentirsi a suo agio psicologicamente e fisicamente, così come si ritiene naturale che ogni donna veramente tale debba rallegrarsi al solo pensiero di avere un figlio: dalla donna che sta diventando madre si attendono certi sentimenti, e se lei non li prova si rimane male, ci si sente quasi traditi. Si tratta di una specie di cieco sentimentalismo, frutto di un’illusione senza limiti.

Spesso la gravidanza dalle donne viene vissuta come una scossa violenta o un’esperienza da affrontarsi coscientemente. Può darsi che la risposta emotiva sia di gioia e di accettazione, ma può darsi anche che la cosa venga vissuta come un terribile fastidio che interferisce inaspettatamente nei progetti di vita e di lavoro. Questo tipo di donna obietterà che vuol godersi la vita, le dispiace perdere l’aspetto fisico e la sua energia giovanile, o immagina semplicemente con terrore tutte le sofferenze che deve affrontare e il periodo della crescita di suo figlio con le notti interrotte e i giorni pieni di fatica. Dal punto di vista clinico una donna che sente in questo modo è ancora bambina, la sua vita è orientata verso il piacere e se non trova in sé la forza e il coraggio di affrontare la prova della maternità forse per lei sarà meglio evitarla, in quanto se poi alla fine si ritrova madre – sotto più o meno esplicite pressioni esterne o, peggio, sulla scia di una specie di moda – il doppio materno sarà ben visibile nel rapporto con suo figlio. Nell’adempimento quotidiano con il figlio sarà quasi perfetta, ma nel suo intimo penserà in molti momenti che non era questo il suo ideale. Se in questo tipo di madre rimangono inconsce le sue tendenze egoistiche e narcisistiche da cui era partita, inevitabilmente sopraggiungerà il momento in cui la decadenza del sentimento materno travolgerà il suo psichismo al punto tale da inventare un qualcosa pur di sfuggire alle sue responsabilità: ci sono madri che arrivano a costruirsi perfino dei disastri economici pur di stare distanti da “questa routine asfissiante”.

Altre donne, spesso giovani e meno egoiste, non vogliono comunque la maternità perché interromperebbe la loro vita abituale. Quando, per esempio, una donna sposata conta sul suo lavoro per far sì che il suo reddito, con quello di suo marito, sia sufficiente ai bisogni familiari, rimanere incinta costituisce un pressante problema psicologico. Spesso questo tipo di donna vive una crisi interna, che le provoca conflitti e addirittura scissioni nel proprio intimo. Essa non vuole rimanere incinta per motivi che le sembrano essenziali, ma diventerà ugualmente madre nonostante il suo modo di pensare, in ossequio all’antico comandamento “crescete e moltiplicatevi” che agisce in sé. Forse all’inizio l’esperienza di essere madre sarà unica e irripetibile, ma dopo poche settimane sentirà che il suo lavoro è primario e il figlio è una dolce compagnia serale. Anche qui il doppio materno si farà sentire con conseguenze non meno nefaste.

Talvolta la resistenza della donna alla gravidanza può essere legata a problematiche e risentimenti verso il marito: è il caso in cui rimanere incinta implica l’essere stata ingannata dal marito e spinta in un’esperienza materna contro la sua volontà. Il figlio le ricorderà quindi l’inganno del partner e nel profondo ella coverà un serio rifiuto, interagito nella realtà con sensi di stanchezza, assenza totale di gioco e di contatto, insofferenza verso i gravami che l’esperienza materna comporta. Ricordo una donna che all’epoca della sua prima gravidanza aveva elaborato una frigidità verso suo marito e una totale assenza emozionale verso suo figlio di cui non era affatto consapevole mentre era intenta a lamentarsi di giornate piene di impegno materiale verso figlio e marito. A suo dire, una vita dedicata agli altri.

Una donna dovrebbe impegnarsi senza indugi a riconoscere le sue resistenze alla maternità, dovrebbe sapere che se durante la gravidanza è stata esposta a disturbi come il vomito o la minaccia di aborto, questi fenomeni possono avere una comune base psicogena di cui la resistenza alla maternità può essere il nucleo centrale.

“Solo quando le si fa chiara la natura della sua resistenza e quando essa riconosce che la gravidanza è l’adempimento di un destino che le appartiene e che non le è stato imposto dall’esterno, i disturbi scompaiono e non ritornano più”. (Esther Harding, 1969)

Forse solo in questo caso la sua maternità potrà risultare matura e la relazione con suo figlio benefica.

A noi psicoterapeuti si presentano sempre più spesso donne che, benché madri con diversi figli, non hanno ancora compreso il vero significato di ciò che è avvenuto in loro, né hanno il pur minimo sentore che attraverso di loro si è compiuto un processo creativo.

In passato era naturale per una donna desiderare un figlio, così per un uomo era vissuto come un incredibile miracolo, una cosa unica e favolosa, ma oggi capita spesso di sentire da giovani coppie di non volere bambini o di essere in una qualche impossibilità di averne. La voce del corpo e l’autentica portata dell’atto sono soffocati probabilmente da un atteggiamento razionale e materiale verso la vita. Bene. Ma in questi casi perché spingersi ad averli ugualmente se questo atteggiamento è destinato a perdurare? Forse per soddisfare un antico conflitto morale o per giungere ad una maturità insperata, per acquistare un certo valore sociale o per vivere l’ennesima esperienza di cui non si ha affatto coscienza? A dispetto di tutte le risposte possibili, si può esser certi che un figlio direbbe severo: “Mamma, papà, io non vi ho scelti!”.

Riferimenti bibliografici

Jung, C. G. (1980). Zur Psychologie der Tricksterfigur (1954). Trad. it.: Psicologia della figura del Briccone, in Opere – Vol. 9, Tomo 1: Gli archetipi e l’inconscio collettivo (Bollati Boringhieri, Torino 1980).

Harding, E. (1969). The way of all women (New York: Longmans, Green & Co., 1933). Trad. it.: La strada della donna (Astrolabio Ubaldini, Roma 1969).

Rank, O. (1994). Der Doppelgänger: eine psychoanalytische Studie (Wien: Turia und Kant, 1994). Trad. it.: Il doppio: il significato del sosia nella letteratura e nel folklore (SugarCo, Milano 1994).

Trevi, M. – Romano, A. (2009). Studi sull’ombra (Cortina, Milano 2009).

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